Mi dispiace quando i ragazzi vivono la scuola solo come un dovere, dato che la mia generazione ha scoperto la scuola come diritto e come strumento di promozione sociale. Non vorrei che il nuovo nome del Ministero dell’istruzione come Ministero del merito tradisca la nostalgia della scuola degli anni ‘50 del Novecento, che era scuola meritocratica, ereditata dal Fascismo, una scuola fatta per selezionare i “meritevoli” e farne la classe dirigente, ma che riproduceva le differenze sociali con cui gli alunni entravano a scuola, senza assumersi il compito di contribuire a rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza di fatto tra le persone come vuole invece l’articolo 3 della nostra Costituzione.
È la mia esperienza personale. Mia sorella dopo la III classe elementare ha lasciato la scuola di campagna frequentata fino ad allora perché la famiglia aveva deciso di farla “continuare a studiare” nell’implicita consapevolezza che le scuole di campagna (per lo più pluriclassi) erano fatte per i figli dei contadini, che avrebbero continuato a fare i contadini. Io stesso ho dovuto sostenere l’esame di ammissione alla scuola media, che doveva selezionare chi era adatto all’avviamento professionale e chi invece era adatto alla scuola media considerata propedeutica al liceo (non a caso le prime due classi del liceo classico si chiamavano IV e V ginnasio, la continuazione delle prime tre classi di scuola media).
Allora non c’era ancora la scuola media unica, per tutti i cittadini, che risale al 1962, istituita per costruire in tutti le condizioni della partecipazione attiva alla vita democratica. Anzi era coscienza comune che la scuola non fosse roba per i figli dei contadini: “Questa è una vita che non fa l’uva” (un modo di dire basato sull’assonanza delle due parole vita/vite) è stato il commento di un mio compagno degli anni di elementare alla mia scelta di frequentare anche le scuole superiori. È dall’esperienza di quella scuola selettiva degli anni ‘50 che deriva il pregiudizio tutt’ora in parte perdurante secondo cui sono buona scuola e bravi insegnanti quelli severi, che bocciano, che separano meritevoli e no. Spiegare, assegnare i compiti a casa, poi interrogare per giudicare, oggettivamente appaiono le funzioni della scuola efficiente.
E invece noi abbiamo scoperto col Sessantotto che la scuola è palestra di vita, dove convivono i ceti sociali, i più capaci con i meno capaci… per insegnare due cose: anzitutto che chi ha le competenze le deve mettere a servizio, nella cooperazione, di chi ha bisogno e che il giudizio a scuola non serve a inchiodare l’allievo alla sua prestazione ma serve a valutare la efficacia dei metodi e della didattica, da sostituire se del caso con altri. Non è funzione della scuola (soprattutto della scuola di base) selezionare i più capaci, quelli che, tutto sommato, possono anche fare a meno della scuola perché hanno a casa fonti alternative d’informazione e conoscenza, bensì è suo compito promuovere le capacità latenti, rimuovere gli handicap pregressi, la mancanza di esperienze, lo scarso rendimento da deprivazione sociale e culturale. Il medico non serve ai sani ma ai malati.
Nella capacità di recupero dello svantaggio si misura il successo della scuola. Scaricare sulla famiglia il recupero è per la scuola la rinuncia alla sua funzione. È di questo che i figli dei contadini avevano bisogno: ricordo i capannelli di fratelli, cugini e pure di figli dei vicini sotto l’albero che mio padre potava per farsi aiutare a risolvere le equivalenze o i problemi avuti per compito dagli insegnanti. Non vorrei, cioè, che la meritocrazia in generale sia usata per giustificare le disuguaglianze sociali e che il merito a scuola, in particolare, sia il cavallo di Troia per ritornare alla scuola classista del dopoguerra che giudicava solo le produzioni degli studenti indipendentemente dalla considerazione dei condizionamenti familiari (disponibilità di libri o no, ripetizioni private o no, abitudine all’uso della lingua o del dialetto).
C’è oggi un’opinione diffusa e montante che ritiene che sia stata la scuola in stile Barbiana ad affossare il merito nella scuola che ora sarebbe da recuperare. No. Don Milani ci ha fatto capire che il peccato mortale della scuola è rifiutare i poveri e che “il sapere serve solo per darlo”, solidaristicamente. Il rischio è che lo scolaro che non merita (per i motivi più diversi, non genericamente per mancanza di volontà), sia accusato di rallentare le prestazioni dei migliori e per questo emarginato in classe e destinato alla dispersione. C’è chi vuole ancora una scuola che, anziché mettere a disposizione di tutti l’ascensore sociale, sia funzionale ai nuovi “valori” della competitività e dell’individualismo?
Facciamo chiarezza: la valorizzazione del merito e dei talenti è un valore, auspicabile nel mondo del lavoro dove si progredisca in carriera per questo e non per raccomandazione. A scuola, invece, si sta tutti insieme, ci si aiuta a rimuovere le cause delle disuguaglianze, non ci si deve limitare a prenderne atto per fondare su di esse una competizione sociale che è fondamentalmente scorretta se non si raggiunge l’uguaglianza dei punti di partenza.
Enzo Monsù
30 giugno 2024