Marche, Storia e convegni: San Claudio al Chienti, chiesa o palazzo delle udienze?

Si è chiuso l’importantissimo convegno indetto dal Centro Studi Storici Maceratesi che nelle dichiarazioni ante facto era annunciato come fondamentale per la storia della Regione. Io non c’ero per cause non dipendenti dai miei desideri, ma alcuni seri e affidabili amici me lo hanno commentato e dai loro racconti mi è sembrato una semplice elencazione di documenti con un battibecco finale che mi ha fatto pensare ai bambini dell’asilo che si litigano la merendina anziché un convegno di specialisti del settore. La merendina, capirete perché alla fine del pezzo, è l’edificio di San Claudio.

Veniamo al dunque: L’argomento del convegno era “Il Maceratese e le Marche centro-meridionali  tra Impero e Papato (Secc. X-XII)”. Lo scopo del convegno, non esplicitato, era con una certa evidenza smentire le tesi inizialmente avanzate da don Giovanni Carnevale e di cui mi occupo da tre lustri, perciò penso di poter esporre il mio punto di vista. Innanzitutto se si dibatte pubblicamente una tale questione si sarebbe dovuto invitare anche chi non la pensa come il direttivo del CSSM.

La mia visione della storia, l’ho messo nero su bianco più volte, è che essa debba essere scritta soprattutto basandoci sulle testimonianze concrete del nostro passato e, a parte il notevole bagaglio di memorie popolari e di letteratura d’evasione come corollario, sono le strade, i paesi, le chiese, i castelli eccetera che testimoniano credibilmente il passato, perché per farle queste cose sono costate notevoli risorse umane, detto terra terra un mucchio di soldi, e ogni comunità ha le proprie e non sono infinite. Le cronache scritte su carta non costano alcuna fatica a scriverle e perciò un imperatore può fare un viaggio di mille chilometri con un esercito di centomila uomini valicando le Alpi d’inverno, perché sulla carta questo ci sta, pure se impossibile, ma se voglio forzare una tesi faccio finta di crederci.

San Claudio al Chienti, interno

La regione Marche vanta una storia lunga almeno trenta secoli, che è credibile se è descritta da un continuum spaziale e temporale. Come un edificio di trenta piani sta su se ogni piano è coerente sia con quello sotto che con quello sopra. Dell’imponente edificio sono stati scelti tre piani, alquanto anonimi (le relazioni del primo giorno lo hanno evidenziato) in cui è successo davvero poco mentre prima abbiamo l’età carolingia e dopo l’età federiciana, entrambe ricche di sostanziali testimonianze materiali e anche documentali, pericolose a mio avviso per chi voglia continuare a far prevalere l’invenzione nazionalistica bismarckiana del medioevo tutto tedesco che don Carnevale ha iniziato a smentire, con qualche errore di dettaglio, ma con una formidabile intuizione.

Non mi si è riportato nulla su cosa consistessero le annunciate grandi novità soprattutto sulle questioni Impero e Papato che emergono con evidenza se ad esempio si legge la Storia di Civitanova di Giò Marangoni, proprio sui secoli del convegno. È mancato il papato forse perché è mancato l’apporto del relatore chiave il professor Longo su Farfa, del quale non è neppure pervenuto uno scritto. Non mi si è accennato a quello che a parer mio era il titolo più interessante sull’invenzione della MARCA DI ANCONA del professor Pirani, perciò il messaggio credo non sia stato recepito.

Un tale importantissimo evento tra l’altro non è stato trasmesso in diretta streaming e non capisco perché se davvero importante, anche per evidenziare le bellezze del teatro che ospitava i convegnisti. Gli atti, fra un anno, chissà cosa racconteranno dato che verba volant e nessuno li ha registrati. Veniamo ora alla merendina contesa. Don Giovanni Carnevale ha fatto una scoperta fondamentale, e magari qualcuno ricorda la riunione a Montegranaro che facemmo per festeggiare un suo compleanno e in quella occasione dissi che Carnevale meritava un posto fra i grandi scopritori di civiltà ovvero Wolley, Carter e Schliemann (Ur, Tutankamen, Ilion), a mio avviso don Giovanni ha commesso un errore marginale, ma che è divenuto nell’intransigente atteggiamento dei suoi “continuatori” il tallone di Achille delle loro posizioni: non essendo uno specialista in materia ha confuso il palazzo delle udienze che Carlomagno si fece costruire al centro del nuovo complesso imperiale, dopo il terremoto dell’801, con una mai esistita “cappella palatina” definizione inventata dai filologi tedeschi dell’ottocento per giustificare con l’unico monumento medievale di Aachen la presenza carolingia.

San Claudio al Chienti, retro

Sulle poche carte autentiche (alla Libreria Vaticana) e su una trascrizione degli Annales Laurissenses (anno 829) la chiesa che Carlomagno fece costruire in onore della Santa Madre di Dio è chiamata “basilica”, che identifica per chi se ne capisce di architettura e di diritto, un edificio religioso pubblico edificato da un re o un imperatore. Se lo si vuole cercare basta andare a Montecosaro Scalo, dove la tabella turistica recentemente sostituita indica “Chiesa” quando la preesistente riportava il nome da secoli di “Basilica”.  Il piccolo errore architettonico di don Giovanni, sostenuto a spada tratta dei suoi continuatori, come il vessillo in una crociata, ha semplicemente fornito tutti i pretesti agli storici tedeschi di contestare l’Aquisgrana in val di Chienti, inviando qui una gentil signora che ha scritto un unico e costosissimo libro sulle “doppelkapelle” ovvero alcune chiese a due piani costruite dopo il Mille in Germania e confrontate, senza alcuna comparazione tipologica o strutturale per farlo, con gli edifici signorili carolingi, che dopo la presa di possesso da parte del Papa Re dell’antica Francia Salica Picena sono state adattate in funzione di chiese, anche se non nacquero come tali, lo dimostra l’impianto compositivo perché in origine esse erano grandiose sale per le riunioni, totalmente diverse dalla composizione spaziale e dalla struttura delle Chiese Cattoliche contraddistinte dall’impianto compositivo “allungato a nave” come una delle prime Santa Maria in Cosmedin a Roma. In questi grandi edifici si riuniva la comunità come nella grande aula per pubbliche riunioni fatta costruire da Costantino il Grande e Massenzio, che essendo di costruzione imperiale da parte del Basileus venne chiamata Basilica.

Se si fa un poco di chiarezza sulle caratteristiche funzionali di queste architetture e non si battibecca su cappelle di qui e cappelle di là cercando inconsistenti paralleli con un oratorio costruito in perfetto stile moresco (cioè da maestranze venute dall’Andalusia) che nel panorama altomedievale francese è una mosca bianca, non si offrono alla contestazione ipocrita i pretesti per contestare. Si dovrebbe, prima di affogare in un bicchier d’acqua, porre al mondo degli storiografi la questione della cultura e della lingua: in tutto il medioevo, fin dall’inizio della loro storia i Franchi scrivono in Latino, la lingua dell’Italia centrale, la usano per il loro diritto che è lo stesso di quello Romano, la usano per gli atti notori, per le poesie, financo per ordinare i lavori ai contadini.

Questo uso coinvolge anche le leggende sulle origini come scrive Ademaro da Castel Potenza (francesizzato di comodo in Adhemar de Chabannes) tirando in ballo i Troiani, Enea e Antenore.  Questo è l’argomento fondamentale perché non esiste alcun altro esempio nella storia dell’intero scibile umano di vincitori che assumono l’intera cultura dei vinti, mentre è debolissima anzi inconsistente la tesi germanica della tribù olandese che si latinizza per frequentazione marginale di un latifondista di Soissons (fatto tra l’altro inventato senza alcuna prova tangibile) ma poi dopo 5 secoli quando l’impero si sfalda gli stessi cominciano a scrivere in dialetto teutonico.

Selezionare con cura un lasso di tempo in cui non è successo nulla di notevole e del quale per varie traversie (lo spiego nel mio libro) i documenti sono tutti finiti in Germania, mi si perdoni l’espressione significa avere la coda di paglia. Capisco e mi spiego il gran lavoro dei filologi e storici bismarckiani per dare radici epiche al nascente “bundesreich”, che raccolsero e pubblicarono “pro domo sua” i più di cento volumi del Monumenta Germaniae Historica al motto “Sanctus amor patriae dat animum”, raccolta e selezione di documenti dai quali il prof. Hartmann ha selezionato quelli che gli facevano gioco, glissando su diplomi quali quelli di Lotario in cui il notaio lo dichiara Re d’Italia e Re di Francia, “rogati e vocati” in Aquisgrana, quando la storia dice che in “Francia” (in realtà si chiamava ancora Gallia) c’era Carlo il Calvo mentre ad Aachen in Germania c’era Ludovico, quindi la Francia con Aquisgrana è quella di don Carnevale (e timidamente la mia), quella che il Notker di Sangallo chiama Francia Antiqua.

Se gli storici tedeschi dell’Ottocento, che Fustel de Coulanges descrive organizzati come un esercito per dare radici epiche alla Confederazione, hanno agito per amor di patria e la cosa è perfettamente comprensibile, a distanza di un paio di secoli ora che si parla di Europa e i campanilismi non hanno più attualità se ne dovrebbe riparlare ma, sinceramente, non capisco gli storici nostrani, che hanno un patrimonio di storia e cultura davvero invidiabile (e lo dice un piemontese perciò neutrale), vogliano negare delle evidenze e con tale accanimento: dalle mie parti si direbbe che fanno come quel marito che pur di fare un dispetto alla moglie si tagliò… CENSURA.

Medardo Arduino

9 febbraio 2024

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