I rapporti tra l’antica Abbazia benedettina di Santa Croce al Chienti nell’attuale territorio di Sant’Elpidio a Mare e il comune di Montolmo (oggi Corridonia), fino alla fine del XIII secolo sono stati molto stretti e importanti. Basti pensare che, anche se casualmente, il nome di Montolmo si deve proprio ai monaci di questo monastero che nel X secolo (è impossibile saperlo di preciso), fondarono un piccolo cenobio con annesso cimitero e chiesa intitolata a Santa Maria, sulla cima della collina di rimpetto al castello. Come era uso piantarono un olmo che nei secoli crebbe tanto da dare il nome a tutta la zona.
La prima pergamena in cui si menziona il luogo è del 968, un privilegio proprio a favore dei monaci di Santa Croce: “curtem in loco qui moncupatur Olmo”, cioè “la corte del luogo chiamato Olmo” (Codice 1030 Fermo). Occorre fare alcuni cenni storici di Santa Croce per comprendere i rapporti con la nascente comunità di Montolmo. Il monastero fondato nell’887 dall’imperatore Carlo III il Grosso nipote di Carlo Magno e dal vescovo di Fermo, Teodosio (tralasciamo tutte le dispute sulla famosa pergamena dell’atto costitutivo), nel 968 fu liberato da Ottone I dalla dipendenza del vescovo fermano ottenendo enormi benefici e diritti sui territori della Marca; non può sfuggire che il 968 è lo stesso anno del beneficio in cui compare la “corte di Olmo”. Pertanto il territorio della futura Montolmo era posseduto per una consistente parte dai monaci di Santa Croce, grazie anche a donazione di privati come si legge nella carta fiastrense del 1122 in cui certo Alberto di Giovanni lascia in eredità, “per la redenzione della propria anima”, un terreno in “Saliano” (chiamato anche “Seiano”, “Sejano”, identificale all’incirca nell’attuale zona della Villa Fermani) e “sei moggia nel fondo Virgiliano” (zona non identificabile tra l’attuale Monte San Giusto e Corridonia). Il castello di Montolmo era di proprietà del vescovo di Fermo. Egli era feudatario del Papa ma di fatto dipendeva dall’Imperatore.
In un documento del gennaio 977 (Codice 1030 di Fermo) appare chiara la situazione, con la contemporanea presenza del vescovo Gaidolfo e del conte Mainardo. A partire dal 996 con Uberto, successore di Gaidolfo, come da ordinanza imperiale ecclesiastica di Ottone III (vedi Pacini, “Per la storia medioevale di Fermo e del suo territorio”, Fermo 2000), furono i vescovi di Fermo a esercitare il potere comitale. Seguirono nei secoli alterne vicende sfociate prima con la lotta per le Investiture e quindi in quella tra Papato e Impero (Guelfi e Ghibellini). Nel 1229 il Papa Gregorio IX nomina un Rettore della Marca e con l’accordo con l’Imperatore di San Germano (oggi Cassino) del 1230, quest’ultimo rinuncia esplicitamente alla Marca e ha inizio nella regione l’amministrazione pontificia diretta che porterà la fine del potere temporale dei vescovi. Amministrazione diretta almeno teoricamente perché lo scarso potere centrale nello Stato Pontificio, con la nascita prima dei Comuni, delle Signorie e con l’avvento delle grandi famiglie aristocratiche, si protrasse addirittura fino al XVIII secolo, specialmente per l’amministrazione della giustizia.
Nel 1238, Filippo II, vescovo nato a Montolmo (non si conosce la famiglia), cede definitivamente al comune di Fermo il governo di quasi tutti i castelli in cui esercitava i diritti feudali. Singolare che sia proprio un vescovo Montolmese a sancire la fine del potere temporale dei vescovi fermani. Nel 1115 nasce il comune di Montolmo: Azzone (Azzo) vescovo di Fermo e il Morico, abate di Santa Croce al Chienti, concedono diverse franchigie. Fissano i confini della nascente comunità (difficilmente identificabili per il variare della toponomastica) e si impegnano a difenderla, “non suscitare questioni nei mercati e nei traffici”, esentare la popolazione da ogni “servitù e tributo” (dazi) e ad autorizzare l’amministrazione della giustizia (“bassa giustizia”) fuorché per “assalto, omicidio, furto ed incesto”. I cittadini vengono anche esentati dal “frodum”, l’obbligo di rifornire le truppe e i funzionari di passaggio, men che per quello che riguardava l’Imperatore. La comunità in contropartita deve mantenere il giuramento di fedeltà, difendere il castello e ricostruirlo se distrutto per tre volte. Questo ultimo obbligo palesa quanto fosse normale la devastazione di un insediamento e quanto violenza e sopraffazione fossero cosa comune all’epoca.
Davvero suggestiva è la maledizione, retaggio del cristianesimo mistico, che il vescovo lancia verso chi infrangerà il patto: sia colpito da “crudelissime sciagure”, sia “dissipato come fumo, si disciolga come cera al fuoco, resti cancellato dal libro dei viventi, sia inghiottito dalla terra come Dathan e Abiron”, due fratelli che avevano congiurato contro Mosè. Infine assai teatrale è la parte finale: il traditore “corra tra le tenebre al precipizio, incalzandolo l’Angelo del Signore”. La maledizione fa subito pensare alla lastra sepolcrale del 1186 di Teostoritto dei Papegomeni che si trova attualmente sotto il loggiato delle Scuole Medie di Corridonia (vedi La rucola n° 194 – luglio 2014): “Chi violerà questo sepolcro sebbene angusto, decada dalla eredità dell’Eden ed incorra nella maledizione de’ Padri [Padri del Concilio di Nicea], e l’ultrice mano di Dio lo raggiunga”. Da citare l’ipotesi dello studioso austriaco Wolfram Horandner (1942-2021) che ritenne Teostoritto un monaco greco di rito latino trasferitosi prima ad Ancona e poi spostatosi nell’interno (“Italien” in Byzantinische Epigramme auf Stein nebst, 2014). L’atto di franchigia firmato per Montolmo da Consoli non da un Podestà, carica evidentemente non ancora istituita, non viene fatto di certo per benevolenza.
Le condizioni economiche stanno cambiando, i comuni con la nascente classe borghese stanno diventando dei centri ricchi e potenti ma innanzitutto la lotta tra Papato e Impero era già iniziata trascinandosi, a fasi alterne e con momenti di pausa, fino al XIV secolo: portare quindi dalla propria parte un comune era importante. Che poi i comuni e i signori locali restassero fedeli è un’altra storia e in questi secoli si vivrà un passaggio continuo da una fazione all’altra in base alle donazioni e alle franchigie concesse. In effetti dopo la morte di Enrico VI (1165 -1197) e la nomina papale di Innocenzo III (1198), nella Marca la situazione precipita. I comuni sempre intenti ad aumentare i propri territori saranno costretti a unirsi in Leghe a favore del rappresentante dell’Imperatore o del vescovo di Fermo, che in ogni caso non gradiva troppo la sempre maggiore ingerenza dei Legati di Roma.
Tralasciamo le complesse vicende che porteranno alla pace del trattato di Polverigi in cui Montolmo sarà con Ancona, Fano, Senigallia e altri contro la lega di Fermo, ricordiamo invece, facendo un balzo di un secolo, che nel settembre del 1329 a Montolmo si riuniscono i comuni ghibellini, tra cui Osimo, Fabriano, Urbino, che facevano capo a Ludovico il Bavaro, capeggiati da Mercenario da Monteverde signore di Fermo. Alla fine la fedeltà di Montolmo alla Chiesa provocò il rovinoso saccheggio dello Sforza del 1433: tanta violenza che forse ha lasciato qualcosa nel karma dello stesso comune.
Tornando alla franchigia del 1155, questa non era certamente totale: fino al 1251 Montolmo dovrà far ratificare la nomina dei Consoli e del Podestà al vescovo (Bolla di Innocenzo IV). A Montolmo era residente, almeno fino all’atto della franchigia, un gastaldo del vescovo (si usa ancora il termine di origine longobarda) che curava i suoi interessi all’interno del distretto. Con il prevalere del Papato sull’Impero e la crescita dell’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, Santa Croce perde lentamente importanza e potere: nel 1266 muore Manfredi d’Altavilla ucciso nella battaglia di Benevento e per Santa Croce che lo aveva appoggiato inizia un declino inarrestabile. Nel 1266 i beni del monastero verranno accorpati all’Abbazia di Fiastra e addirittura nel 1269 il Papa incaricherà il vescovo Filippo II di riformare il convento secondo l’Ordine Cistercense. Del resto Nicolò, abate di Santa Croce, aveva già subito la scomunica per aver favorito Manfredi e a ben poco era servita l’assoluzione del 10 luglio 1265 ricevuta dal vescovo di Brugnato (vedi “Pergamene fiastrensi”).
Le ingerenze dei monaci di Fiastra erano iniziate già da decenni: nel marzo 1227, sempre nelle carte fiastrensi, si legge che fra Lorenzo da Montolmo, monaco e preposto di Santa Croce al Chienti, professa davanti l’abate Giovanni la regola cistercense rassegnando il sigillo del monastero di Santa Croce che teneva come preposto. Il 5 febbraio del 1266, come risulta da una pergamena dell’Archivio Comunale di Corridonia, Giacomo, abate e sindaco del monastero di Santa Croce del Chienti, vende la chiesa di Santa Maria in Castello ai Frati Minori: l’atto verrà ratificato solo nel 1270 dietro pagamento di 300 lire ravennati o anconitane. Tuttavia la definitiva affrancazione di Montolmo da Santa Croce avviene nel 1285 come si legge in una pergamena conservata nell’archivio comunale di Corridonia. L’abate di Santa Croce Corrado: “per via transattiva fa quietanza, remissione e cessione di ogni e qualunque diritto, utile ed azione reale e personale che spettasse o si dicesse spettare al monastero nelle possessioni, prati, pascoli, molini, per ragione di enfiteusi o per qualunque altro motivo, posti e situati nel comune e territorio di Montolmo e detenuti dagli infrascritti signori [segue elenco beneficiari] …cassando ed annullando qualunque istromento da essi o dai loro antenati celebrato con il presente abate o i suoi antecessori e rispettivi sindaci a favore del monastero suddetto, affrancando i loro beni in perpetua proprietà ed in allodio. E ciò per il prezzo di 1500 lire ravennati e anconetane”.
La cosa interessante da rimarcare è che la transazione viene fatta dal comune di Montolmo ma gli effettivi beneficiari sono dei soggetti privati, pertanto il comune paga attingendo dalle proprie casse per liberare dei cittadini (sicuramente di alto rango), dai gravami che i loro terreni avevano con l’Abbazia. La cosa però non fu perfezionata perché il comune non aveva pagato la somma pattuita e nell’agosto 1292, ben sette anni dopo, sempre nell’Archivio Comunale si trova una pergamena in cui Filippo abate di Santa Croce del Chienti e Gentile di Amoroso, sindaco del comune di Montolmo, “in nome dello stesso e per conto di alcune persone che avevano affrancato in perpetuo allodio i beni dell’abbazia ricevuti in enfiteusi ed esistenti nel territorio di Montolmo” (i cittadini citati precedentemente), si accordano sulla somma di 1500 lire ravennati e anconetane, promesse e non ancora versate. L’atto viene firmato a Sant’Elpidio nella casa di Suppi di Paolo “dove abitano i giudei”. Il Suppi citato è quello che compare nel “Regesta Fermana” nel 1280 come sindaco di Fermo? E il fatto che nella casa abitassero giudei, può far supporre che per il pagamento si sia proceduto a un prestito? Consideriamo che in una pergamena di Revisione delle pubbliche entrate dei conti del Massaro del comune, esse ammontano solo “in quattro mesi a 767 lire, 13 soldi, 9 denari”, si capisce pertanto che l’esborso non era trascurabile considerando le normali spese. Tant’è che il comune ricorreva non di rado a prestiti come quello che compare nel 1298 di lire 200 da restituire pena scomunica! Prestito probabilmente contratto per chiudere una controversia con l’abate di Valdicastro, dato che le due pergamene di prestito e transazione riportano la stessa data, 28 aprile 1298.
Valdicastro è un monastero che si trova nei pressi di Fabriano, fondato da San Romualdo (951 ca. – 1027) e dov’è tuttora sepolto. L’abate Ermanno sollevò diritti su “vassalli, servi, ascrittizi ed altri uomini di qualsivoglia condizione…della villa di San Giovanni…[e su] terre e possessioni di qualsivoglia condizione o nome” che i signori di Petriolo Nobili avevano ceduto a Montolmo. Cosa non rara considerando la confusione sui diritti che a volte più persone potevano vantare su di un feudo, opponendo privilegi anche antichissimi che da tempo non venivano esercitati. Fatto sta che il Comune probabilmente per evitare lunghe e costose cause o sotto la pressione di qualche forte personaggio, o dello stesso potente monastero, chiuse la questione in maniera transattiva. Comunque Ermanno finirà scomunicato nel 1328 per aver appoggiato l’antipapa eletto da Ludovico il Bavaro. Nel 1291 Filippo, ultimo abate di Santa Croce, finì anche lui scomunicato e, anche se in seguito assolto, dovette abbandonare il convento: è di lui l’atto del 1292 che abbiamo citato. Con Filippo finisce una storia secolare di potenza che solo i documenti ci possono rammentare: tutto si è dissolto come la “cera al fuoco” della maledizione del vescovo Azzone.
Modestino Cacciurri
Qui sotto, dalla raccolta di pergamene dell’Archivio di Corridonia, particolari degli atti del 1285 (contratto di cessione dei diritti di S. Croce a Montolmo) e del 1292 (pagamento della cessione del 1285).
20 settembre 2023