La parola “liscìva” evoca qualcosa di liscio e scivoloso, come di panno insaponato. Non è escluso che derivi dalla parola con cui gli Arabi nominavano l’acqua di bollitura della cenere, appunto la liscìva, usata già dagli antichi Sumeri (2500 a. C.) d’Aleppo per lavare la biancheria, una tecnica importata in Europa proprio dagli Arabi nei secoli della loro espansione in tutto il Mediterraneo.
Nelle nostre campagne il costume ha attecchito e resistito fino a tutti gli anni ‘50 del Novecento perché corrispondeva allo stile di vita contadino di non sprecare niente e di riusare i prodotti naturali di scarto: da sempre i contadini lavavano i piatti unti con l’acqua di cottura della pasta e scrostavano i fondi di bottiglie e damigiane con sabbia o rena sottile. E, appunto, lavavano e sbiancavano i panni con acqua e cenere del camino.
Anzitutto andava scelta cenere di legna buona, non di carta o di canne, andava setacciata per eliminare i pezzi di carbone, i grumi e le impurità, i resti di legno incombusto. I panni da lavare erano stati preparati: alle parti più sporche (colli e polsini) si dava una passata preliminare con sapone fatto in casa, una spazzola grossolana e tanto… olio di gomito; riposti così insaponati nella “secchia di legno a tre ‘recchie” – sistemata sopra un solido sgabello – aspettavano l’acqua bollente, che si stava scaldando nel grande caldaio ramato sul focolare acceso, oppure nella stufa a tronco di cono rovesciato usata anche quando si uccideva il maiale: aveva un camino centrale dove bruciava legna e un rubinetto sul fondo per un comodo prelievo.
Coperti i panni insaponati con un vecchio lenzuolo a trama fitta a far da filtro ecco entrare in scena la cenere: sparsa in abbondante strato su questo lenzuolo di copertura, sopra vi era versata l’acqua bollente che esaltava il potere detergente di questa soluzione alcalina, sgrassante come la soda caustica ma naturale e non inquinante l’ambiente. Man mano che l’acqua si freddava questa operazione si ripeteva per due/tre volte, con la stessa acqua, prelevata da un apposito foro sul fondo della secchia col tappo di sughero e fatta ribollire. Tutta la notte i panni (soprattutto i bianchi e le lenzuola) restavano in ammollo, a riposare, per far depositare la cenere e far agire a lungo il detergente.
Al mattino si partiva verso la fonte pubblica, il fiume o il lavatoio comunale per sciacquare la biancheria: le donne potevano caricarsela con una cesta portata in equilibrio sopra la testa protetta dalla “crocchia”, il fazzoletto arrotolato per ammortizzare il peso, oppure la trasportavano sulle bigonce a dorso di mulo o, addirittura, il vergaro delle famiglie più numerose poteva allo scopo utilizzare il biroccio tirato dai buoi. C’erano da eliminare il sapone e i residui di cenere, perciò i panni venivano sbattuti sopra una pietra o una robusta tavola di legno. Alla fine venivano strizzati con una tipica manovra che richiedeva due persone, che li giravano contemporaneamente in direzione opposta. Infine restava da asciugarli al sole, stesi su una corda legata tra due alberi.
Andare (e tornare) alla fonte o al ruscello con la cesta di vimini in testa era, per le donne, anche l’occasione per chiacchierare, scherzare e farsi confidenze e, a volte, per esternare i conflitti latenti, magari scatenati da contrasti sull’ordine d’uso delle vasche, soprattutto nei lavatoi pubblici. Nel tempo “lavandaia” è diventato sinonimo di donna pettegola. C’erano anche lavandaie di professione, che ritiravano i panni sporchi nelle case nobili e li riportavano puliti. Era lavoro duro soprattutto d’inverno. Forse per questo motivo, nelle case contadine, se in estate il rito del bucato con la liscìva avveniva ogni 15/20 giorni, succedeva che d’inverno si sospendesse per aspettare la primavera, quando la temperatura dell’acqua del ruscello era più accettabile per le mani.
Abbiamo visto che ai fini del bucato veniva usata l’acqua di cottura della cenere, quanto più chiara e filtrata possibile; e la cenere depositatasi sul fondo della mastella che fine faceva? Non andava certo sprecata: veniva usata per le pulizie dei pavimenti e della casa intera, per sgrassare le pentole e i rami e l’acqua decantata serviva anche per l’igiene personale e per lavare i capelli. C’era un ultimo uso della pasta di cenere: mescolata con soda caustica, scarti di grasso di maiale, strutto e fondi d’olio d’oliva, serviva per fare in casa il sapone. Solidificato negli stampi, veniva tagliato; per profumarlo veniva integrato con aromi naturali come rosmarino, lavanda, menta e basilico. Del resto in molti saponi in commercio ancora oggi è presente la cenere.
Enzo Monsù
12 settembre 2023