Su San Claudio gli storici del copia-incolla replicano inesattezze ed errori altrui…

Due luminari della cultura accademica italiana sono stati colpiti dalla depistante azione di Hildegard Sahler su San Claudio al Chienti. Questi sono Paolo Piva, docente alla statale di Milano, e Ivan Rainini alla Cattolica.

Il primo ha scritto “Il romanico nelle Marche” nel 2003, rieditato e regalato dalla Banca Marche nel 2012. Emblematico è il modo in cui Piva inizia la sua dissertazione sull’architettura di San Claudio: “È soprattutto sulla esaustiva ricerca di Hildegard Sahler che baseremo la nostra scheda” (p.177). In 4 pagine il povero Piva cita ben 21 volte la furba Studiosa, accettando acriticamente ciò che Lei dice in italiano sulla data di costruzione della chiesa della val di Chienti, cioè “verso il 1030” (p. 16), e ripetendo poi lo stesso errore a p. 178 quando scrive: “la facies originaria (XI secolo)”. Non si accorge, infatti, che nel testo in lingua tedesca e inglese Sahler è molto più cauta, perché ha scritto che l’edificio di San Claudio è stato costruito probabilmente verso il 1030. A p. 45 del suo testo in tedesco l’Autrice si esprime in questi termini: “il vescovo di Fermo fondò con molta probabilità la pieve di S. Claudio”, mentre nel sommario in italiano dello stesso volume dice ben altro: “il vescovo di Fermo si fece costruire verso il 1030 la chiesa a due piani di S. Claudio” (Sahler H., “San Claudio al Chienti”, ed. Rhema 1998).

Pervicacemente, quindi volutamente, in modo depistante, ha ripetuto la stessa operazione nell’edizione italiana del 2006, quando nel sommario in italiano di p. 237 dice “il vescovo Uberto di Fermo si fece costruire in un posto strategicamente importante verso il 1030 la chiesa a due piani di S. Claudio” ma due pagine prima nel sommario in inglese invece dichiara “probabilmente intorno al 1030”.

Riportando troppo frettolosamente la tesi della Studiosa, Piva scrive a p. 178 (“Il romanico nelle Marche” 2012): “La Sahler, attraverso una puntuale lettura della documentazione disponibile, ha confermato la tesi che il piano basso costituisse la chiesa plebana e il piano alto la cappella vescovile”. No, stimato prof. Piva! Effettivamente a p. 237, nel sommario, la Sahler afferma categoricamente ciò che Lei riporta, ma a pagina 63 aveva scritto cautamente: “sopra la chiesa inferiore che probabilmente svolgeva funzione di pieve, si trova forse la cappella privata del vescovo”. Conoscendo il poco tempo a disposizione dei professori di chiara fama, la Sahler sa bene che questi leggono molto attentamente i sommari ma, spesso, frettolosamente il testo: questo è il motivo per cui, non avendo trovato documenti, a pagina 63 usa per la sua ipotesi anche gli avverbi probabilmente e forse. Nel sommario, però, finge di aver citato nel testo degli inesistenti documenti, facendo cadere in trappola uno dei luminari più importanti del mondo accademico italiano, il quale certifica che la Sahler “ha confermato la tesi che il piano basso costituisse la chiesa plebana e il piano alto la cappella vescovile”.  A p. 179 della sua opera, Piva attesta: “…una nuova collocazione culturale/stilistica della chiesa e  una  più  puntuale  cronologia  relativa  (qualche dubbio, come diremo, sussiste sulla cronologia assoluta).

I primi due esiti incontrovertibili, che hanno superato alcuni topoi della storiografia locale, riguardano infatti la esclusione di un rapporto culturale con l’Oriente greco/bizantino (assai citato quello col Monte Athos)”. Con quell’“incontrovertibile”, il Professore regala la patente di infallibilità alla Sahler: ma come può farlo? È  concepibile che non conosca il palazzo Hisham vicino Gerico? È altresì impossibile che non sappia che il patrimonio architettonico della Siria araba dell’VIII secolo è frutto delle conoscenze greco-giudaico-cristiane di Costantinopoli? Piva non conosce neanche il cubo di Siponto, quadrato con quattro pilastri al centro e due absidi, esistente già nel 493, quando sette Vescovi vi si riunirono per poi recarsi alla grotta di S. Michele Arcangelo e aprirla al culto?! La Sahler, per distrarre l’attenzione degli studiosi dal sud Italia e specialmente dal sud del Mediterraneo, semplicemente non ne parla, o accenna appena al Meridione, tanto da inserire ben sette cartine dell’Italia (n° 195, 202, 205, 218, 221, 229, 237) senza Roma e senza tutto il Mezzogiorno.

Non parla o accenna appena al Mediterraneo Orientale e quindi non dimostra, si limita a ignorare la Siria romana e araba e mette solo le piante della chiesa bizantina di Vatopedi e le cattedrali armene di Wagharschapat e Bagaran. Piva non dovrebbe citare solo il monte Athos ma chiarire anche che le cattedrali di Wagharschapat e Bagaran sono in Armenia, quindi al confine con il grande patrimonio architettonico della Persia. Invece, abbagliato dalla cultura tedesca che esala dal tomo della Sahler, si limita a certificare la Sua dimostrazione dell’inesistente rapporto con l’Oriente, da poco conquistato dagli arabi.

Successivamente il professore della Statale di Milano avanza l’ipotesi di un’altra data di costruzione di S. Claudio (sempre compresa nell’XI secolo) ammettendo quindi che non esistono documenti che dicano con certezza la data sicura di costruzione. Per quale motivo alcuni studiosi inseriscono date di costruzione ipotetiche, spacciandole per indiscutibili? Il metodo praticato dagli storici dell’arte per definire la data di costruzione di una chiesa è quello del confronto con strutture simili già datate. Ora Piva, però, affrontando la questione dell’edificazione di S. Claudio, accumula un numero impressionante di errori, quando scrive: “il più antico esempio noto di questo tipo si trova in occidente: l’oratorio di Teodulfo a Germigny-des-Prés (803-806 circa) ove compaiono anche le tre absidi orientali e le absidi uniche sugli altri lati (qui a tetraconco). Così è in Occidente che dobbiamo ‘restare’ sia per la Halle [n.d.r: intendendo riferirsi alla ‘hall’] che per i triconchi (di origine paleocristiana), ma tanto più per la Doppelkapelle. Le celle trichorae e i tri-tetraconchi erano serviti come mausolei/martyria e talora come battisteri. A Concordia per il battistero dell’XI- XII secolo fu adottata la forma triconca della vicina cella per reliquie paleocristiana; a Gravedona per la chiesa battesimale venne ribadita nel XII secolo la forma triconca del V secolo. La Sahler evidenzia come in età carolingia si possa ‘aggiungere’ ai tri-tetraconchi la funzione di cappella privata (S. Maria foris portam di Castelseprio – tuttavia forse più antica – Germigny-des Près, S. Satiro a Milano – gli ultimi due anche a quattro sostegni e nove campate). Le funzioni plebano/battesimale e privata ‘palatina’ tendono anche a sommarsi mediante una sovrapposizione in altezza. Alla radice di questa seconda tendenza sta ovviamente la ‘cappella’ palatina di Aquisgrana.” (ibidem p. 179)

Analizziamo bene questo scritto. Un modo tecnico per chiamare le absidi è “conco”, quindi dire “triconco” è come dire tre absidi e tetraconco significa con quattro absidi. Piva, copiando frettolosamente la Sahler (e pensandola infallibile!) a pagina 164 (Sahler 2006) inavvertitamente ha copiato anche il suo errore, attribuendo alla chiesa francese di Germigny-des-Près quattro absidi mentre ne ha inconfutabilmente cinque. Piva attribuisce, inoltre, ai battisteri paleocristiani di Concordia e Gravedona la stessa valenza delle tre absidi sulla stessa parete, mentre invece sono su tre pareti diverse: basta guardare le piantine numero 136 e 137 di Concordia (Sahler 1998) e la piantina numero 138 di Gravedona (ibidem). Addirittura Piva sogna di vedere una chiesa doppia a Germigny-des-Prés, ignorando forse che è stata ricostruita nel 1867-76. Ma quali sono le prove che prima del XIX secolo la chiesa francese fosse a due piani? Ora comunque due piani non li ha. Dove poi la Sahler dimostra che Castelseprio svolgeva la funzione di cappella privata? Cosa ha in comune Castelseprio (che ha un’abside sulla parete nord, una sulla parete sud, l’ultima sulla parete est, è senza pilastri e rettangolare) con Germigny-des-Prés? Che vanta cinque absidi, quattro pilastri e pianta quadrata! San Satiro è un tetraconco (quattro absidi): cosa ha in comune con il quinconco (cinque absidi) di Germigny-des-Prés? San Satiro è quadrata solo nell’immaginazione della Sahler, che vede un quadrato tra i quattro pilastri, ma basta guardare la pianta di questa chiesa sulla tavola 147 (Sahler 1998 e 2006) per scoprire che non vi sono quattro lati perché tondeggiante! Sempre a pagina 179, Piva riporta, come esempi che hanno anticipato S. Claudio, il palazzo episcopale di Como e il battistero di San Giovanni a Galliano (Cantù), affermando giustamente che sono tetraconchi e sperando forse che nessuno si accorga che S. Claudio ha ben cinque absidi: la differenza con S. Claudio, San Vittore alle Chiuse, S. Croce a Sassoferrato, Santa Maria delle Moje e le loro cinque absidi è macroscopica!

Avendo posto come modelli dell’edificio di S. Claudio tutti battisteri, Piva ha un sussulto di resipiscenza quando deve ammettere che San Claudio è un edificio di “ben altra struttura e importanza, anche se le funzioni possono corrispondere (ma il piano basso non è solo un battistero)” (2012 p.179). Sarebbe stato un insulto all’intelligenza sostenere che la chiesa della val di Chienti sia un battistero. Se pure è vero che tutte le chiese parrocchiali hanno il battistero e che sotto il terrazzo (realizzato, secondo la Sahler, in seguito alla costruzione originaria) abbiano ricavato un battistero quando la chiesa è diventata parrocchia, si è ben lontani dal dimostrare che un simile, imponente edificio abbia copiato i piccoli battisteri della Lombardia.

Anche la chiesa di S. Salvatore a Germigny-des- Près svolgerebbe la funzione di battistero? Piva non si è accorto neppure che la Sahler non ha messo nel suo imponente studio la pianta né l’alzato (il costruito) della Chiesa di Aachen? Visto che alla radice delle chiese ‘carolinge’ sta “ovviamente la ‘cappella’ palatina di Aquisgrana” (ibidem p. 179), perché non ha paragonato Germigny-des-Prés con la cappella di Aachen, visto che è ufficialmente la “prima discendente diretta” (ibidem p. 102) della cappella palatina? Semplice: perché non si assomigliano affatto!

L’ultimo (per ora) a essere colpito dall’azione depistante della Sahler è Ivan Rainini. In effetti vi sarebbe anche Cristiano Marchegiani ma, non avendo messo nel suo “ARCHITETTURA E SOCIETÀ NEL MACERATESE FRA MEDIOEVO E NOVECENTO” (2022) neanche una foto della chiesa di S. Claudio e avendo citato una sola volta la Sahler, possiamo dire che, per ora, non è caduto nella sua trappola. Rainini nel 2021 ha dato alle stampe un tomo di quasi 500 pagine e 500 note, dal titolo: “L’ABBAZIA DI SANT’URBANO“ (Desiderio Editore). Ha citato ben 70 volte la Sahler e più di 60 Piva (il quale in gran parte, ricordiamolo, aveva copiato dalla Sahler) e i risultati si vedono. Nel primo capitolo intitolato “Romanico Marchigiano e rapporti col mondo antico”, parlando di S. Claudio, scrive che è stata “eretta a partire dall’XI secolo… Un caso unico, in cui “il modello germanico ‘della cappella a due piani’ assurge a scala monumentale, configurando una chiesa doppia sovrapposta (Sahler)”, affiancata da due torri cilindriche di tipo ravennate (sant’Apollinare in classe)” (Rainini 2021 pag.49). A questo punto mette la nota 63 di pagina 64: “Sull’argomento si rinvia alla fondamentale monografia della Sahler 1998”.

Il povero Rainini, sulla scia di Piva, ha letto solo il sommario in italiano della studiosa tedesca non accorgendosi che Lei, in inglese e in tedesco, è molto più cauta, dal momento che ha scritto “fondò con molta probabilità”. Il ‘con molta probabilità’ dà all’affermazione della Sahler il valore non di un effettivo dato di fatto, ma di un suo personale orientamento storiografico. Mentre Rainini dà per dimostrato ciò che dimostrazione invece non ha: cioè, ci sono i documenti che S. Claudio è stata costruita nell’XI secolo? Anche sul suo presunto “modello germanico” sbaglia la fonte: difatti la Sovrintendente della Baviera sostiene che S. Claudio ha fatto da modello a due chiese tedesche di cui oggi rimangono ben poche tracce, mentre è Piva a sostenere l’opposto (benché sempre senza documenti a disposizione). Perché? Parlando di Santa Maria di Portonovo al Conero, Rainini ricorda che il nucleo centrale richiama analoghe soluzioni presenti a S. Claudio, S. Vittore, S. Croce e S. Maria delle Moje e non ha dubbi che “accanto a evidenti echi di origine transalpina e lombarda ormai sedimentati sul suolo marchigiano, sia altresì ravvisabile un riflesso occidentalizzato di modelli greco bizantini mediati, verosimilmente, dai cantieri dell’Italia meridionale e, in particolar modo, dalle maestranze benedettine itineranti” (ibidem p. 70).

Con queste osservazioni, prende ora le distanze dalla Sahler, per la quale l’Italia esiste solo da Pescara a Como, tanto che ben sette cartine, da Lei pubblicate, raffigurano la penisola senza Roma né il Meridione. Ma il Professore della Cattolica smentisce se stesso a pagina 101 quando, a proposito delle quattro chiese marchigiane del gruppo, sostiene l’esistenza di studi più approfonditi “su questa particolare tipologia edilizia”. Se questi edifici hanno (come  hanno, e solo nelle Marche hanno!) questa particolare tipologia edilizia, una scuola regionale allora c’è. Si smentisce, di nuovo però, sempre a p. 101, quando scrive: “È stato, così, finalmente superato in manierata incontrovertibile un topos storiografico che, da sempre, l’aveva erroneamente classificata [n.d.r.: il riferimento è a S. Vittore alle Chiuse] nell’ambito della tradizione greco bizantina”. In questo passaggio scompare l’influenza del romanico pugliese, di cui aveva parlato a p. 70. Usa lo stesso aggettivo ‘incontrovertibile e la stessa frase di Piva: “…esiti incontrovertibili, che hanno superato alcuni topoi della storiografia locale, riguardano infatti l’esclusione di un rapporto culturale con l’Oriente greco/bizantino” (2012, p. 179).

Di seguito Rainini a p. 101 scrive: “nessun influsso ‘deuterobizantino’, dunque, ma, al contrario, una stretta dipendenza da precisi modelli occidentali: le celle tricorae e gli edifici tri-tetraconchi adibiti a mausolei/martiria o, in certi casi, a battisteri e cappelle private: Santa Maria foris portam di Castelseprio (VA), oratorio carolingio di Germigny- des-Près (Sainte Trinitè) nella valle della Loira, San Vincenzo a Galliano (CO), San Satiro a Milano”. Ripete, cioè, una parte delle affermazioni di Piva, compresi gli stessi errori.

Pur non citando Concordia e Gravedona, sottintende questi battisteri, che però sono quadrati, con un’abside per lato, mentre sul quarto lato non c’è l’abside ma la porta d’ingresso: gli edifici, invece, con tre absidi sullo stesso lato sono molto diversi, anche se vengono tutti chiamati triconchi. A Castelseprio vi è un’abside sui lati nord, sud ed est, inoltre non vi sono pilastri ed è un rettangolo: allora che rapporto c’è con S. Claudio, con le sue cinque absidi, i quattro pilastri e la pianta quadrata? Germigny-des-Prés non è un tetraconco (quattro absidi), a differenza di quello che afferma la Sahler, a pagina 151 del suo lavoro del 1998, ma un quinconco (cinque absidi). San Vincenzo a Galliano nel comune di Cantù (CO) al piano terra è un tetraconco (quattro absidi), mentre all’esterno ha la forma di una ruota di bicicletta, incidentata, deformata ma sempre a forma cilindrica. Non ha pilastri ma quattro piccoli ‘pilastrini’ addossati agli angoli, tanto che una persona magra riesce a stento a passare tra questi e il muro. Basta guardare la planimetria di San Satiro a Milano per capire che un quadrato lo vede solo la fervida fantasia della studiosa tedesca (Sahler 1998 pianta 147), quando invece è un ‘quadrifoglio’, ossia un simil cerchio. Quindi, i battisteri di S. Satiro e Galliano, la chiesa di Castelseprio e l’episcopio di Como sono molto diversi da S. Claudio e dalle altre del gruppo.

Albino Gobbi

27 agosto 2023

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