Le nostre nonne, soprattutto, ma anche i nonni erano molto religiosi e la loro profonda fede aveva anche risvolti che oggi possono sembrare un po’ strani. Gli uomini finivano le scuole elementari, quando andava bene, le donne dovevano uscire dopo la terza elementare e quindi la loro fede era profonda ma risentiva ancora dei modi di credere ancestrali tramandati verbalmente dagli antenati.
La morte per loro era una realtà ineluttabile e accettata con rassegnazione. La mortalità al momento della nascita arrivava perfino al 40% e la vita media era intorno ai 35 anni. Pure per questo c’era una antica credenza, forte e radicata: si doveva nascere e morire a casa. Oggi ho 82 anni e sono nato a casa di mia madre a Corridonia. Per i nostri avi morire in ospedale significava morire due volte. Quando i medici diagnosticavano la fine imminente l’uomo o la donna erano portati subito a casa.
Qui si preparavano accuratamente, lui veniva sbarbato e pettinato, e anche lei era amorevolmente preparata e di tutto ciò si occupavano i familiari stessi. Poi si faceva il letto con la biancheria migliore del corredo della donna, si copriva lo specchio perché il morto non poteva essere riflesso e perché chi entrava di morti ne avrebbe visti due e ciò non sarebbe stato bello. Nella camera non si poteva piangere e, soprattutto, non si doveva parlare; se qualcuno avesse avuto la necessità di farlo sarebbe andato nella stanza accanto. Dove c’era il defunto si pregava solamente.
Vicino alla porta veniva posto uno sgabello sul quale era messa una tazza con l’acqua benedetta e, vicino, un rametto di ulivo: chi entrava lo immergeva nell’acqua e faceva con quello tre segni di Croce sulla salma recitando un “lucettè” (l’eterno riposo), poi si metteva a pregare con gli altri. Quindi il cadavere veniva posto nella cassa e avveniva il trasporto con la prima sosta per la cerimonia in chiesa, seguita da tutti con devozione, successivamente al camposanto.
La bara non poteva e non doveva uscire dalla porta di casa perché non si voleva si dicesse che il morto fosse andato via da casa ma, affinché la sua memoria restasse in famiglia, il feretro era fatto uscire da una finestra, che si trovava accanto alla porta; in alcune antiche case coloniche, ma anche in abitazioni dei paesi, si può vedere ancora, accanto alla porta di casa vera e propria, “la porta de lu mortu”, una uscita chiamata così perché la salma usciva da lì.
Anche nella morte c’era la differenza di classe. In quasi tutti i paesi della nostra provincia il carro funebre era uno solo e aveva, sopra al pianale, un ricco baldacchino. Questo era rimovibile grazie a una carrucola posta sul soffitto del luogo dove era ricoverato, che sollevava il baldacchino e consentiva all’occorrenza di far uscire il carro con il pianale sgombro. È ovvio che con il baldacchino il carro era per i nobili, i maggiorenti del paese e i loro famigliari, mentre senza era per i contadini, gli operai, per la povera gente.
Tumulato il feretro c’era poi la parte “pagana”. Tornati a casa i famigliari si riunivano, tempo consentendo sull’aia, per bruciare tutti i panni che il morto aveva addosso al momento del decesso. Il fumo, spargendosi nell’aria, assumeva una direzione e, antico modo di credere, indicava la casa dove, nell’arco dell’anno, ci sarebbe stato un morto. Sciocca credenza certamente ma… se negli anni una o due volte, per puro caso e solo per puro caso, ciò fosse avvenuto veniva ricordato in ogni occasione di decesso e rinnovava e avallava un modo di credere che così si sarebbe perpetuato. Fede antica fra sacro e profano, quindi ma certamente il culto e il rispetto dei morti era profondo. Nei giorni nostri, purtroppo spesso, la visita al morto è molto meno seria e sentita, anzi a volte è un ricevimento quasi mondano, nel quale più che pregare e per ricordare il morto ci si mette a chiacchierare per “confortare” i vivi.
Cesare Angeletti “Cisirino”
29 aprile 2023