Fini e i Tullion Macquart

di Enzo Nardi

 

finiCome Gianfranco Fini sia finito nelle spire pitonesche dei terribili Tullion Macquart è un mistero degno di Giacobbo, il conduttore di Voyager ossessionato dalla storia del Sacro Graal. Un noto settimanale che non manca mai sui tavolinetti di tutte le parrucchiere d’Italia (caro lettore, non essendo io Miss Gruber Sinistren Delicatessen, amo le parrucchiere, adoro le portinaie e venero le stiratrici) ha pubblicato qualche mese fa una portentosa foto che ritrae l’ex pupillo di Almirante fra i terribili Tullion Macquart. Il dagherrotipo presenta un je ne sais quoi di ineffabilmente sinistro che spingerebbe perfino Margherita Hack a recitare scongiuri in dialetto teramano, stringendo un amuleto rosso e ballando come un’ossessa la taranta sulla piattaforma del telescopio triestino. Sciò, sciò ciuccioè. Io stesso, mentre vergo questa paginetta, avverto degli strani brividi alla schiena e ho l’impressione di essere osservato, addirittura mi sembra di sentire la punta di un corno su una chiappa. Poi penso a Bocchino di Rosa e ritrovo la mia solita baldanza di mezzadro marchigiano. Ma facciamo in po’ di educazione all’immagine. Sulla sinistra del famoso ritrattone si nota il capostipite dei terribili Tullion Macquart: un omino cereo dal ghigno dolce che ha l’età di Lucianino Gerovital Gaucci, il primo amore di sua figlia Bettina, ma su questa poeticissima vicenda sentimentale che sfiora i più alti vertici della fin amor provenzale parleremo in seguito. Papà Tullion mi incute una paura tale che mi entrano in risonanza le rotule: la sua espressione ricorda quella di Jack Nicholson in Shining e quasi provo pena per le sorti future di Fini. Sulla destra c’è Maman Macquart, una ex casalinga che si è trasformata improvvisamente in imprenditrice televisiva. E’ stupefacente: questa donnetta che fino a ieri armeggiava con Spic & Span e amoreggiava con Mastro Lindo ora ce la ritroviamo topa manager. Vicino a Fini è accomodato le petit Tullion con una strana capigliatura liscia che gli fascia il capino e che termina all’inizio del collo con due riccioli arrotondati alla Sylvie Vartan. Sarà per questo che lo chiamano Elisabetto? Elisabetto ha un volto simile alla sorella ma anche qualcosa di ambiguo: un incrocio fra Tutankamen e il lubrico cantante Prince. Gli italiani lo ricordano per l’adorato Ferrarino blu, un gingilletto che lui lava e rilava e su cui, come un borghesuccio pidocchioso, passa e ripassa la pasta lucidante. Betto è un tipico traffichino centromeridionale e quel che ha fatto con la casa della povera signora Colleoni, fascistona romantica e ingenua, Dio solo lo sa. Certo è che ha giocato uno scherzetto non da poco all’erede di Almirante il quale è stato obbligato a un disonorevole balbettio da Mentana (sembrava per capirci il Forlani con la malinconica bava sul labbro inferiore torchiato da Di Pietro) e a fare la figura da sprovveduto in quel triste monologo sul web. Ma veniamo alla Bettina. Il musetto è grazioso ma un po’ da Cita, la scimmietta di Tarzan. La Cita però è alta e ha i capelli biondi. Fa figura. E’ adorata da Fini come Dante adorò Beatrice, come un trovatore il suo Midons, come Cino da Pistoia la sua Selvaggia. In che modo è possibile che questa eterea dama provenzale, ancorché citesca, sia finita tra le grinfie di Gerovital Gaucci? Non sarà mica per danaro? In fondo la povera verginella D’Addario che cosa chiedeva in cambio da Silvio Primo? La ristrutturazione di un misero casolare pugliese, favore che il furbo Silvio Primo, dopo essersi preso sollazzo della ragazzona cimadirepe, si è guardato bene dal fare. La Bettina, invece, più scaltra, ha fregato Lucianone e Gianfranco. Quest’ultimo, il paragone non sembri irriverente, mi fa ritornare alla mente Unrat, il professore bigotto e dispotico protagonista dell’Angelo Azzurro di Heinrich Mann che, dopo aver perso la testa per la vanitosa Frohlich, diventa l’immoralista della sua città, pappone, biscazziere e corruttore della gioventù. Povero Finion Macquart: sedotto dalla sua Frohlich, a un certo punto ci ha detto che la famiglia non conta un cacchio, gli embrioni meno che un cacchio, l’italianità un quarto di cacchio. Ma ora basta, cari lettori. Sono le tre del pomeriggio di un torrido giorno agostano. Fini dorme in un lussuoso albergo di Orbetello (pare che abbia prenotato per due mesi e che la vacanza, a causa della scorta, abbia costi notevoli) dopo un solenne pranzo di pesce. Russa come un mantice e nel sonno farnetica. Noi lo osserviamo e lo sentiamo (siamo infatti capaci di viaggi astrali). Suda, si gira continuamente e, sarà per gli effluvi della Vernaccia di San Gimignano, straparla. Tra un ronf ronf e l’altro si sentono strane espressioni del tipo: “Belpietro ti faccio un mazzo così… io so’ io e voi nun zete un caz…. Bocchino di Rosa stai lontano dalla Began… Pierferdinando amado mio…” Poi inopinatamente attacca: “Facete largo che passamo noi, ‘sti deputati de ‘sta Roma bella, semo ragazzi fatti cor pennello che le ragazze famo ‘nnamorà’… ma che ce frega ma che ce ‘mporta …” Quindi con voce stentorea aggiunge: “Io a questo gioco al massacro non ci sto!” Ma ora, probabilmente, non è più Fini che parla ma l’anima di Oscar Luigi Scalfaro sottrattasi alle fiamme dell’Inferno. Fatemi un piacere, qualcuno chiami l’esorcista, anzi, già che parliamo di allegroni, contattate… l’esorciccio!

 

 

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