La figura di don Pier Paolo Bartolazzi viene quasi esclusivamente ricordata per le sue ricerche storiche e per il suo famoso, almeno per Corridonia, “Memorie di Montolmo” (1887), una specie di “Vangelo” per gli amanti della storia locale. Meriterebbe invece anche un grato ricordo per la sua figura di profondo uomo di fede che si adoperò con tutte le sue forze per il bene della comunità.
Nasce a Montolmo dalla nobile famiglia Bartolazzi il 27 novembre 1824 da Andrea e Marianna De Minicis da Falerone: a comporre la famiglia sono altri tre fratelli e una sorella. Passò la fanciullezza tra le pareti domestiche. Morto il padre a soli 43 anni per i postumi di una caduta dalla carrozza, la madre fu costretta a badare ai cinque figli e agli affari famigliari. Purtroppo anch’essa si ammalò di un tumore ai polmoni e ben presto, nel novembre 1834 morì, lasciando i cinque piccoli alla tutela dello zio Paolo Bartolazzi.
Invece che al prestigioso collegio Gesuita dei Nobili della vicina Loreto, i quattro piccoli orfanelli maschi furono destinati al Seminario di Recanati perché si scoprì che il patrimonio di famiglia era stato di molto decurtato: non si riusciva a capire il motivo di tale ammanco, tanto che si racconta che Paolo, sospettando che il fratello avesse nascosto in qualche parte il denaro, si aggirasse per il palazzo picchiando i muri nella speranza di trovare il nascondiglio. Fatto sta che da Recanati, per quei tempi città molto lontana, i quattro fratelli furono spostati al seminario di Macerata dove Pier Paolo superò brillantemente gli studi. Quindi nel 1846 ottenne a Fermo il “canonicato teologale” e il 23 dicembre 1848 fu ordinato sacerdote e celebrò la sua prima Messa la vigilia di Natale nella Collegiata di San Pietro, Paolo e Donato di Montolmo.
Pier Paolo conduceva una vita molto spartana: viveva nella casa di famiglia occupando solo due piccole stanze: si alzava prestissimo, parco nel mangiare, quasi astemio era intento solamente a meditare e dir Messa. Montolmo era terra di chiese, sacerdoti e frati, e di questi non pochi prendevano la vita sacerdotale alla leggera, adempiendo solo agli irrinunciabili doveri sacerdotali (come a esempio dir Messa una volta al giorno) per poi passar la giornata, come ci racconta don Andrea Bartolazzi nipote di Pier Paolo, a “roccolare”, alla “nucetta” come si direbbe oggi, cioè a far la caccia da una postazione fissa per poi raccontare la sera le imprese venatorie. E questo era a volte il male minore della loro vita…
La stessa politica si stava affacciando nella tranquillità dei nostri paesi, il Risorgimento accendeva gli animi anche nei sacerdoti: i frati di solito reazionari e dalla parte degli austriaci e i giovani sacerdoti per Napoleone III. Pier Paolo devoto profondamente a Pio IX non poteva che parteggiare per l’imperatore dei francesi, specialmente dopo l’abbattimento della Repubblica Romana: la felicità per tale evento fu tale che organizzò una festa con prosciutto e abbondante vino per i compagni della Collegiata. Di certo questo non gli impediva di visitare i carcerati politici di Montolmo (molti a quanto pare) di cui riuscì a ottenere la fiducia e da alcuni addirittura il cambio di fede.
Divenuto agli inizi degli anni ‘50 deputato dell’Amministrazione dell’Ospedale Civico, si adoperò affinché fossero preposte alla direzione dell’istituto le Suore di Carità, le cosiddette “Cappellone” e con le stesse, appena giunte, aprì subito una scuola per le fanciulle di “civile condizione”. Nel luglio del 1855 la notizia dello scoppio del colera a Pausula (nel 1851 Montolmo aveva cambiato nome ed era stata innalzata a Città) raggiunse Pier Paolo a Roma. Saputa la notizia ritornò immediatamente al paese e si adoperò in tutti i modi insieme con il suo amico don Giuseppe De Angelis portando conforto spirituale e materiale agli ammalati. Ebbe poi il pensiero di far venire in Pausula per liberarla dal flagello, il corpo di San Felice martire che si diceva essere stato estratto dalla catacombe di Sant’Agnese in Roma il 10 gennaio 1850 e donato al canonico don Antonio Bianchedi di Monte Milone (Pollenza) e da questi al Bartolazzi. Non entriamo in merito di quale San Felice sia e se si trovi effettivamente nel novero ufficiale dei santi, il discorso sarebbe lungo, e raccontiamo solo di come il corpo giunto in città il 14 luglio fu trasportato nella chiesa di Santa Croce ove si conserva e venera tuttora. Sarà stato il caso o il Santo, da quel momento i contagi calarono per cessare definitivamente il 2 agosto.
In relazione a questo triste periodo, la cittadinanza narrava perfino di un miracolo avvenuto per intercessione di don Pier Paolo, il quale reagiva alla notizia che circolava molto indispettito e imbarazzato. Una donna incinta affetta da colera stava per partorire e il nostro canonico giunto al suo capezzale si ritirò in preghiera affidando la partoriente alla Madonna: finita la preghiera la donna “felicemente si sgravò”. La fama della sua fede e santa vita giunse fino al Vaticano dove pare che Pio IX in persona esclamasse: “Peccato sia troppo giovane per nominarlo vescovo!” Vista la sua vita irreprensibile fu preposto alla confessione delle Clarisse del convento di Santa Chiara di cui la struttura è ancora visibile in Corridonia (Poste ed edifici annessi). Bisogna ricordare che Pier Paolo non confessò mai donne laiche fino alla sua nomina a parroco della Parrocchia di San Pietro (ometto gli altri titoli) di Pausula, avvenuta il 9 settembre 1860 nonostante i suoi tentativi di sottrarvisi adducendo pretestuosi motivi di salute.
La sua nomina coincise proprio con la caduta del governo Pontificio cosa che, racconterà, rattristò di molto il suo cuore. L’indole di pietà e compassione, la dedizione alla preghiera e alla meditazione, contraddistinsero fin dall’inizio la sua carica: passava molte ore del giorno e della notte davanti al tabernacolo chiedendo di sorreggerlo e illuminarlo. Fuggiva gli spettacoli e i divertimenti pubblici e non mancava di visitare spesso ammalati, poveri e morenti. Vestito sempre con misere vesti, di cui pare i parenti quasi si vergognassero, unico suo svago erano le solitarie passeggiate per la valle di Mosè, nella contrada Aronne “tanto amena e suggestiva” e che anche oggi lascia trasparire la sua antica bellezza.
Le sue prediche durante la Messa o i suoi sermoncini improvvisati destavano molta ammirazione tra i suoi confratelli e fedeli per l’eloquenza e la semplicità, doti che riuscivano a raggiungere il cuore di chi ascoltava. Ben poco si occupava degli affari economici, concentrato com’era solamente sulla preghiera e sui fedeli: “quantunque amasse e rispettasse i ricchi, pure li compativa in cuor suo, e rideva volentieri di quelli che si davano da far denari”. Soleva addirittura dire che una “parrocchia ricca, per molti, è occasione prossima per andare all’inferno”. Non aveva mai un soldo in tasca perché quel poco che possedeva dava in elemosine. La sua mensa era davvero frugale e spesso digiunava mandando la sua misera minestra ai più bisognosi. La cognata per caso scoprì addirittura che dormiva senza lenzuola perché le aveva donate ai poveri. Durante la Settimana Santa, un suo fraterno amico raccontava di aver scoperto che si era flagellato a sangue come penitenza corporale.
E proprio nella Settimana Santa del 1880 a Treia poté assistere personalmente all’estasi con cui Giuditta Montecchiari (1855-1916) ricevette le stimmate. La treiese semplice contadina analfabeta, è stata sicuramente una grande mistica di cui si narra, oltre a eventi miracolosi, di essere vissuta quindici anni senza toccare né cibo né acqua. Dopo la morte fu avviato un processo informativo di beatificazione che si interruppe però per “motivi estranei alla sua santità”. Al ritorno da Treia Pier Paolo fu colpito, come gli aveva predetto la stessa mistica, da una infiammazione prostatica (o forse attacco di calcoli) che gli causò quaranta giorni di terribili dolori e febbre che sempre accettò come volontà di Dio.
Devotissimo della Santa Eucarestia, del Sacro Cuore e del S.S. Sacramento, per la festa del Corpus Domini si adoperò affinché durante la processione le vie fossero ornate oltre che con drappi, con “festoncini di verdura e di fiori in si gran copia” da rammentare una festa dei fiori. Del resto tale usanza a Corridonia è stata ripresa una trentina di anni fa, inizialmente dalla spontanea devozione di gruppi di amici che si adoperavano ad addobbare le proprie vie: nel 2006 si è poi costituita l’associazione “Cittàviva” che organizza una grande e bella infiorata per tutte le vie del centro storico. E fu anche con Pier Paolo che i fanciulli della Prima Comunione partecipavano alla processione, usanza ancor oggi viva.
Fu sempre lui che nel 1869 introdusse la “Lavanda dei piedi” dopo la funzione del Giovedì Santo. Val la pena ricordare invece che la funzione delle “Tre ore” e la “Processione notturna” furono introdotte nel 1737 dal pievano Guerra. La cosa in cui maggiormente Pier Paolo si prodigò fu la carità e l’assistenza ai poveri, malati e anziani, alla gente più umile e derelitta. Subito dopo l’Unità d’Italia le molte confraternite, conventi e parrocchie si trovarono spogliate dei beni espropriati e alienati dal nuovo governo, venendo così a mancare l’unica fonte di assistenza pubblica che, anche se non istituzionalizzata, si prendeva cura delle classi meno abbienti. Nel periodo che va dal 1860 al 1880, si aggiunse una grave crisi economica dovuta alla scomparsa della lavorazione della canapa, unica industria locale. Si racconta che i poveri dormissero per strada, alcuni “sotto i portici della piazzetta”: nelle campagne chi poteva si rifugiava dentro i forni esterni delle case. Questa situazione provocò molto dolore in Pier Paolo che si adoperò con tutte le sue forze per alleviare le sofferenze dei derelitti.
Aprì nel 1866, diretto dalle dette Suore di Carità e attiguo all’ospedale, un primo piccolo iniziale ospizio dei poveri con venticinque posti. L’antico ospedale civico è stato attivo fino alla costruzione della casa di riposo (anni ‘80 dello scorso secolo), e di esso è ancora visibile solo la facciata esterna: progettato dall’architetto locale Antonio Mollari nel 1810 su di un precedente progetto del Valadier, il sobrio interno “neo-classico”, che molti con qualche anno di età ricorderanno, al momento della costruzione dell’ospizio è stato completamente distrutto. Non mi risulta che esistano foto degli interni: spero che questo articolo ne possa far uscire qualcuna.
I poveri crescevano e il Preposto per sganciarsi dalla carità laica decise di costruire un nuovo “Ricovero” affidandosi, come diceva, alla Divina Provvidenza. Sfruttando un piccolo terreno di sua proprietà in Cerqueto, con l’aiuto del signor Saverio Cupelli che elargì senza neanche chiederlo una forte somma di denaro, comprò alcune casette e il 26 aprile 1874, a cento anni dalla demolizione della chiesa di San Clemente del rione Cerqueto situata nello stesso luogo, inaugurò il nuovo ospizio con annessa una chiesetta che aveva le stesse dimensioni della Santa Casa di Loreto, dedicata alla Sacra Famiglia. Il luogo è quello dell’odierna Scuola Materna intitolata per l’appunto a Pier Paolo Bartolazzi. Mise due pie donne, Giulia Ripanti di Macerata e Pasqualina Zitelli da Massa Fermana, alla vigilanza dell’opera e iniziò ad accogliere poveri, malati cronici, orfani, trovatelli, sordomuti, anziani. Non c’era bisognoso che non accogliesse. Lo stesso Preposto si adoperava in prima persona alla cura degli stessi anche nelle incombenze più umili, tant’è che si raccontava che dicesse: “quella dei poveretti non puzza…”.
La “Carità cristiana” era (e forse è…), come dice don Andrea Bartolazzi, ben diversa dalla “filantropia filosofica” laica, troppo impegnata a creare una figura quasi ideale di povero che spesso poco ha a che fare con la realtà stessa. Negli inverni degli anni 1873 e 1874 in cui vi fu un enorme aumento del costo dei generi alimentari, il Preposto si prodigò incrementando il numero dei poveri a cui offriva giornalmente una minestra calda: inoltre mise in vendita farina di granturco sottocosto. Il 1873 va ricordata per le insurrezioni spontanee per il carovita di Macerata e Pausula. Qui una gran turba di popolo che chiedeva l’abbassamento dei prezzi dei viveri di prima necessità passò alle vie di fatto con atti vandalici. I dieci militari intervenuti, fortunosamente sostennero per diverso tempo i sassi lanciati dai dimostranti senza sparare, evitando così, come racconta il Preposto, una strage.
Pier Paolo non mancava di visitare i malati dell’ospedale che confortava in tutti i modi, arrivando addirittura, come si fa per i bambini, ad assaggiare le medicine che questi dovevano prendere. Non riuscendo l’ospedale a ospitare tutti i malati che vi erano, fondò nel 1876 la “Associazione della Madonna del Soccorso” che si occupava dell’assistenza degli infermi a domicilio. Sempre preoccupato della miseria che metteva in pericolo le povere giovinette, istituì nel 1874 in una casa adiacente il Ricovero “Le figlie della Santa Famiglia”, dove una ventina di fanciulle all’inizio, diventate poi quaranta, facevano vita comune e venivano istruite alla produzione di stoffe con vecchi telai: questo perché le giovani non potevano di certo comprare e utilizzare le nuove macchine a casa e sia perché la qualità dei tessuti prodotti era nettamente migliore. I lavori delle giovani furono molto apprezzati e ottennero molti riconoscimenti nelle “Esposizioni Artistiche Provinciali”.
La semplicità e purezza di spirito di Pier Paolo era fuori dal comune perfino in un sacerdote: la sua “inalterabile dolcezza” non fu quasi mai intaccata. Soleva dire che uomini “vogliono esser trattati con dolcezza e niuno vuole l’asprezza”. “Era sempre soave e contento perché non era attaccato a nulla” e non desiderava altro che “far la volontà di Dio”. La sua bontà non gli risparmiò, come sempre accade, attacchi di persone malevoli, dovuti a motivi economici, politici ma anche a semplice cattiveria. Nel 1863 fu accusato ingiustamente di aver rifiutato l’assoluzione a un soldato ricoverato nell’ospedale civico e “volle Dio che la cosa cadesse e non ebbe seguito”. Subì anche una denuncia per aver abbattuto delle querce: verbalmente chiese l’autorizzazione al Prefetto che sempre verbalmente la concesse. Ma persone che avevano messo gli occhi sulle piante e pensavano di farci lauti guadagni lo denunciarono al Sovraintendente che alla fine, credendo nella sua buona fede, non aprì un procedimento penale ma lo obbligò a risarcire il danno. Di questo fatto Pier Paolo rimase molto rattristito, tant’è che il nipote, l’Andrea sopracitato, ritiene abbia aumentato il male che già aveva in corpo.
Nel 1866 alla fine della Terza Guerra di Indipendenza, dei liberali esagitati salirono sul campanile della chiesa di San Pietro e cominciarono a suonar le campane come forsennati. Non bastando ciò, vedendo il Preposto passare sotto il campanile con un chierichetto, gli tirarono un mattone che mancò poco di colpirlo. Pier Paolo non nutrì mai il minimo odio per chi gli aveva fatto del male: si racconta addirittura che regalò un paio di scarpe nuove al tipo che dalla torre aveva cercato di accopparlo. Per non parlare dei delatori delle querce che si presentarono con gran faccia tosta al suo capezzale morente e non certo per farsi perdonare: Pier Paolo non mancò di fare cenni di ringraziamento per la visita nonostante il grande dolore che gli avevano provocato. Nel 1879 essendo assente, l’amministratore della parrocchia per evitare speculazioni dei commercianti, aprì il magazzino e vendette il granturco. È vero che la gratitudine non esiste in terra! Gli acquirenti, che da anni aveva sempre avvantaggiato, chissà perché, se non per mala fede, incominciarono di lì a poco a protestare ed insultarlo asserendo che il prezzo era superiore a quello del “mercuriale” (della quotazione di mercato), cosa assolutamente non vera. Pier Paolo molto rattristato e colpito dalle ingiurie, restituì la differenza del prezzo in più che i compratori asserivano aver pagato e fece vendere il restante granturco a un valore molto più basso della sua reale quotazione.
Verrebbe da dire che anche la beneficenza debba essere fissata da chi la riceve e che invece di volontaria, sia pure obbligatoria! La malattia del 1880, quella avuta dopo la visita alla mistica Giuditta Montecchiari, lo aveva di molto debilitato nel fisico e gli aveva lasciato strascichi nella salute. Nel marzo del 1888 Pier Paolo incominciò ad accusare problemi di stomaco, che pian piano aumentarono: non riusciva a mangiare quasi nulla, quel poco che ingeriva quasi tutto vomitava. Doveva anche sottoporsi a giornaliere “lavande dello stomaco”: oltre che fisicamente lo abbattevano nello spirito. Si giunse quindi al momento in cui si allettò: “mai un gemito di lamento, mai un atto di impazienza ma sempre parole di cortesia a coloro che lo assistevano”. Nei dolori ripeteva solamente: “non avrei mai creduto che tanto ci volesse per distruggere un uomo”.
Fatto testamento in cui lasciò quel poco di personale che aveva al suo Ricovero (“ai parenti solo il suo nome e i suoi esempi”), sentendosi alla fine, chiamò nella sua stanza le fanciulle del ricovero e le alunne del laboratorio, diede loro gli ultimi avvertimenti e le benedisse tra il pianto generale. Non perdette mai la lucidità anche quando i dolori aumentarono, mai si lamentò, accettando le pene come volere di Dio. Presa l’Estrema Unzione verso la mezzanotte del 26 settembre 1888, serenamente spirò. Aveva 73 anni e 10 mesi. Don Pier Paolo ci lascia un grande esempio di virtù cristiane, di un uomo di fede che in tutto si era adoperato per alleviare le difficoltà del prossimo. Un esempio di carità cristiana: una perfetta unione tra la spiritualità e il mondo terreno. È sempre difficile raccontare la vita di un uomo, a volte penso se quel che si ricorda è veramente quello che l’uomo avrebbe voluto si rammentasse di lui. Spero che al Preposto Bartolazzi le mie righe siano piaciute.
Modestino Cacciurri
30 gennaio 2023