Ci sono un paio di motivi per cui ci siamo interessati di quello che per lungo tempo è rimasto un rudere e che si sta restaurando. Uno è il nome: Santi Quattro Coronati, che non è proprio usuale. L’altro perché questa abazia, come tante altre, anche chiese, sparse nel nostro territorio determinano la contrazione del potere della chiesa. Se per lunghi secoli il potere ecclesiastico è stato presente, e forte, ovunque, pure in luoghi sperduti come questo, dove disponeva di vasti possedimenti da tenere sotto controllo, questo potere si è lentamente disfatto e la testimonianza di tale arretramento sono proprio queste strutture abbandonate, lasciate dapprima a se stesse e poi alienate, adibite come in questo caso, pure a ricovero per animali, a stalla.
Questa antica abbazia intitolata ai SS. Quattro Coronati, Claudio, Castorio, Sinfroniano e Nicostrato, si trova nei dintorni di Cingoli, lungo la strada che sale da Jesi, in posizione strategica: presso un laghetto e tra due torrenti che hanno scavato due gole profonde, una difesa naturale per il monastero. La sua fondazione risale all’anno Mille, testimoniata dalla presenza di una lastra di arenaria (oggi nel museo di Cingoli) rinvenuta in loco, raffigurante una donna riccamente agghindata, assisa in trono, con una iscrizione che la identifica come Vergine Annunziata.
Comunque il primo documento è del 1130, un atto di donazione verso il monastero che in quel tempo è dedicato ai Santi San Salvatore e San Cornelio di Colle Bianco. In un atto successivo, del 1153, è citata una nuova consacrazione, ai Santi Quattro Coronati, appunto, come appare pure in documenti successivi del 1230 e del 1375, quando l’abazia ha già assunto un suo ruolo religioso e sociale importante, con una giurisdizione che si estende a chiese del camerte e dell’anconetano, con l’assegnazione di fondi rustici nelle contrade di Cingoli e Osimo. Come accade a quasi tutte le strutture anche questa, nel corso dei secoli, ha subito delle trasformazioni con l’aggiunta di annessi e la demolizione di altri. Non va mai dimenticato che siamo in un territorio soggetto a eventi sismici per cui demolire e ricostruire, quando ci sono i fondi, è una regola.
Nel corso dei secoli c’è stato il decadimento, fino a quando, in tempi recenti, nel 1900, il complesso è stato utilizzato come deposito per attrezzerie e materiali agricoli. Nella canonica c’era addirittura un forno, oggi crollato, che è rimasto attivo fino al 1970, mentre la chiesa è divenuta una stalla, ricovero per bestiame. Ora è proprietà di un privato che ha iniziato un importante restauro.
Durante i lavori, a destra del portale, è stata rinvenuta una iscrizione su pietra arenaria: (H)ic requietsi Amico magister (Qui riposa Amico maestro). Chi era Amico? Non è semplice da scoprire. Di personaggi con tale nome nelle fonti documentarie ce ne sono diversi (è esistito anche un Sant’Amico), ma nessuno dei tanti è nominato come “magister”. A questo punto è bene sapere che Papa Innocenzo II, nel 1141, concesse alla canonica il diritto di sepoltura e tale privilegio potrebbe essere stato accordato in concomitanza con la consacrazione delle chiesa romanica. Quindi il “magister” Amico potrebbe essere l’autore della chiesa cui fu concessa la sepoltura qui e relativo ricordo con la targa.
Come si presenta la chiesa – Il complesso monastico era dei canonici regolari di Sant’Agostino ed è composto dalla chiesa, da una costruzione addossata sul lato est della chiesa e dalla canonica posta di traverso rispetto alle altre due strutture. La chiesa è d’impianto romanico ad aula unica a pianta rettangolare (11 metri di larghezza per 18 metri di lunghezza), posteriormente termina con tre absidi semicircolari: due più piccole ai lati di quella più grande. Internamente l’edificio sacro è suddiviso in tre campate sorrette da archi trasversali e ogivali impostati su pilastri addossati alle pareti laterali che sostengono le travi a vista del tetto. Interessante il presbiterio che è rialzato, interessato da tre arcate, con copertura a botte nella parte centrale e a crociera nelle laterali.
L’interno ha una sua eleganza così intonacato a calce, con la visione prospettica delle arcate e delle absidi. Il pavimento si presenta con mattoni disposti a lisca di pesce, purtroppo rovinati dai mezzi agricoli. L’altare è formato da un pezzo unico, un riuso di epoca romana. La facciata è in blocchi di arenaria mentre il portale è costruito con materiali eterogenei, arenaria e calcare, ed è sovrastato da una lunetta contornata da una cornice semicircolare. In alto c’è un rosone circolare. Parte interessante e più antica è quella posteriore con le tre absidi (ne restano due); a queste manca la copertura come pure mancano le due monofore scolpite che completavano i prospetti delle due absidi superstiti, comunque caratterizzate da una migliore qualità costruttiva rispetto al resto dell’edificio.
Fernando Pallocchini (per le prime 5 foto ringraziamo Alberto Monti per la gentile concessione; le ultime due sono tratte dal sito quattrocoronati.com )
21 gennaio 2023