I materassi di lana erano un bene importante per le famiglie di una volta, specie nelle nostre zone. La lana costava cara, era un bene prezioso. Mia mamma ha tenuto il suo materasso matrimoniale fino alla morte, considerandolo un patrimonio. Periodicamente si ricorreva alle materassaie per sistemare e rinnovare questo importante componente del letto. Le materassaie erano le bravissime manutentrici di questo patrimonio familiare.
Mezzo secolo fa, queste artigiane, venivano ingaggiate per uno o più giorni e giravano per casa con fare sapiente e con professionalità. Il periodo settembrino era considerato ideale, al pari di maggio, per rifare i materassi; specie se le giornate erano di sole, giacché per la lana era proprio il sole morbido di settembre/ottobre che offriva le temperature di lavorazione migliori. In questo periodo, caldo ma non troppo, c’era anche il vantaggio, non da poco, che chi lavorava non sudava come in estate e la polvere della lana non si attaccava più alla pelle dando prurito.
Nella mia città, una “materazzara” molto quotata era Annetta: donna energica, severa ma anche simpatica. Con l’aiuto di mamme, zie e nonne, come prima cosa si attrezzava il loro spazio operatorio, dentro una stanza vuota, presso una finestra, per avere più luce. Si iniziava sfasciando il materasso da rigenerare e l’area operatoria era data da un paio di lenzuola matrimoniali sdrucite, distese a terra come separazione dal pavimento.
Si stendeva il materiale su “lu piancitu” (pavimento) di mattoni pulitissimi, lavati apposta la sera prima. Intorno all’area di lavoro si mettevano le sedie per delimitare lo spazio dentro il quale i bambini non potevano entrare. La materassaia era pure una mezza sarta/rammendatrice e per prima cosa, appoggiato il materasso vecchio alla parete, cominciava a scucirlo con un ferro a gancio, che aveva un lato tagliente. Sul materasso c’erano dei fiocchetti e pure quelli andavano slacciati, ma erano solo decorativi, e servivano per segnare le “pagnotte” del materasso.
La lana, liberata dalla fodera veniva messa dentro grandi secchi per essere lavata. Subito dopo veniva messa al sole per asciugare e per ridargli il colore bianco panna. Le donne di casa, quando la lana era bene asciutta, si sedevano e cominciavano ad “allargarla”, facendole riassumere una consistenza vaporosa; a casa mia stavano ore, a capo chino, su quelle migliaia di ciuffetti che sfeltrivano con velocità e maestria.
Nelle case dove nessuno se la sentiva di allargare manualmente la lana, veniva chiamato il cardatore. La lana, in questo caso, non era allargata con le dita ma con uno speciale attrezzo, chiamato scardatore, pieno di lunghi chiodi, che permetteva la veloce preparazione della lana. Il termine cardare deriva da cardo, la pianta selvatica, usata anticamente per sciogliere e districare le fibre della lana grazie alle sue infiorescenze secche dotate di aculei.
Per lavorare la lana, si poggiava sulla parte inferiore curva dello scardatore, che fungeva da una sorta di tavoletta fermaglio. Più manate di lana, prelevate dalla cesta, si mettevano su questo piano chiodato; la parte superiore dell’attrezzo andava avanti e indietro, oscillando come una campana. Grazie all’inclinazione dei chiodi, la lana entrava da una parte e usciva vaporosa dall’altra. Questo lavoro durava fin quando la lana era tutta ridotta in soffici batuffoli. Questi lavori erano di preparazione e si facevano i giorni antecedenti la formazione del nuovo materasso.
Le materassaie tornavano quando tutto era pronto ed erano quasi critiche d’arte che “leggevano”, attraverso le macchie, la storia del materasso. I materassi, specie quelli dei bambini, recavano vistosi aloni che mostravano memorie di generazioni e generazioni di pipì, fatte dai piccoli quando di notte orinavano fuori dalla “cerata”: questo avveniva perché fino alla fine anni ‘50 non c’erano i costosi pannolini per i bambini. Le infinite pipì creavano, sulla tela, rosoni di un color marcio, variabili dal giallo paglierino al verde acqua… ed erano opere di liberazione corporale che, per qualche misteriosa legge chimica, rimanevano spesso indelebili sul telo, sebbene trattati infinite volte nel secchio del bucato.
Il telo era sempre a strisce bianche e marroni, ma ne ricordo anche uno bianco e rosso ruggine. Il lavoro della materassaia iniziava con il posizionamento della lana, a mucchietti, sopra la fodera, fino a realizzare un grosso parallelepipedo piatto. Poi cuciva il grande saccone. Chiuso l’enorme cuscinone, con maestria, la materassaia usando un grande e lungo ago lavorava sulle bordure realizzando i tipici cordoni cicciotti che davano la forma al materasso. A seguire, si facevano le pagnotte ornate da fiocchetti.
Ricordo Annetta che mostrava sempre quei lunghi aghi per minacciare i bambini. Con gli occhi di fuori li intimoriva dicendo: “Guai a toccare lu materazzu! Sennò me véne male”. Quando il materasso era pronto le materassaie, finito il lavoro, rientravano nelle loro case e, da noi, si preparava la… notte. La sera, quando noi bambini andavamo a dormire, le prime volte quasi ci sprofondavamo in quei morbidissimi materassi alti il doppio di prima, odorosi di sole e di pulito. Che meraviglioso ricordo!
Ahimè, dove siete andate a finire, materassaie maghe del sonno? Molte di voi non ci sono più, state forse rendendo più soffici le nuvole per gli angioletti in cielo? Non mi ricordo quanto prendevate a ora, ma non dimentico che vi pagavamo anche con tanto amore. Eravate le regine della lana e del sole, e oggi non avete più prezzo. O forse sono i ricordi – di un tempo senza tempo – a non aver più prezzo? Cari amici, qui finisce il racconto. Chi di voi mantiene ancora l’abitudine o la tradizione del materasso di lana? In pochi credo… ma sono certo che lo rimpiangete, specie se a una certa età i dolori di schiena cominciano a farsi sentire!
Alberto Maria Marziali
20 novembre 2021