A Montelupone ci eravamo tutti illusi che, arrivato l’“Armistizio” proclamato dal Maresciallo Badoglio ai microfoni dell’EIAR – la RAI dell’epoca – il conflitto fosse finalmente cessato. Preso atto che così non era, le tribolazioni continuarono ancora per parecchi mesi fino alla primavera del 1945, con l’aggravio di trasformarsi in una sorta di guerra civile.
I tedeschi se ne vanno – Con perfetta organizzazione teutonica i tedeschi (negli ultimi giorni del mese di giugno 1944), dopo la lunga permanenza in paese, smontarono in una sola nottata tutta la struttura dell’ospedaletto sistemato – come si diceva – nei locali della vecchia Scuola Elementare e se ne scapparono, incalzati dall’avanzata delle truppe alleate. Il colonnello Kruger salutò in fretta e furia la famiglia che lo aveva ospitato. Mi prese il vi so tra le mani e mi strinse a sé con un impeto e una foga che mi lasciarono interdetto. Ricordo ancora l’odore di disinfettante che aveva addosso e il freddo della borchia del cinturone che mi schiacciava il naso. Tenne le dita intorno alle mie gote rosse di vergogna e, allontanandosi, mi fissò a lungo negli occhi, con una espressione di intensa tenerezza. Distolse lo sguardo, leggermente velato e urlò un ordine all’attendente che si attardava altrove. Si voltò di scatto e scese velocemente le scale.
Il silenzio dell’attesa – Nella concitazione della partenza, il tedesco aveva abbandonato nella camera “requisita” un fornelletto da campo a gas, un’enorme zanzariera e una Mauser, perfettamente oliata e funzionante. Quell’arma era stata per lungo tempo l’inconfessabile oggetto dei miei desideri di guerriero in erba. Un giocattolo pericoloso e compromettente che mio padre, dopo la partenza dell’ufficiale, provvide al più presto a consegnare a chi di competenza. Nel giro di 24 ore il paese passò dall’attività cui indirettamente era stato coinvolto a una indefinibile parentesi di confusa attesa, sorpreso di scoprirsi come fosse abbandonato a sé stesso. Per il momento erano cessati cannonate e colpi di fucileria isolati. Da una settimana non si vedevano più i minacciosi stormi di B/29, i quadrimotori diretti a portare morte e distruzione altrove. Un piccolo Cicogna, aereo da ricognizione solitario e spetazzante, soprannominato dai paesani Pippetto, non sorvolava più da tempo le nostre colline, teneramente sfiorate dalla luce degradante del sole al tramonto.
Arrivano gli alleati – Ai primi sentori dell’estate, in un pomeriggio cocente, ero corso con altri ragazzi al Pincio fuori porta, incuriosito da certe notizie e per controllare di persona gli sviluppi della situazione. Arrivavano le voci più contrastanti. I soldati dell’esercito alleato avevano già occupato Morrovalle e Recanati e marciavano alla volta di Montelupone… Nel mio cervello di adolescente si agitavano mille pensieri e, soprattutto da quello che andavo recependo fra le mura domestiche, capivo che stava accadendo qualcosa di grosso. Si palpava un’atmosfera di sollievo e, nel contempo, di preoccupazione nell’aria ferma e trasparente di quelle giornate. Apparvero all’improvviso,le divise lacere e macchiate di sudore e di fango, gli elmetti dipinti a pezze mimetiche, sotto le reticelle che trattenevano frasche e foglie. Gli occhi arrossati e stanchi sotto l’elmetto. Venivano su, arrancando, per un viottolo che costeggiava i giardinetti di Porta Marina. Erano in pochi, forse una pattuglia in avanscoperta; e mi pareva strano che, con i tedeschi in rotta dalla parte diametralmente opposta del paese, stessero salendo nel contempo a Montelupone, venendo su dalla piana del fiume Potenza.
Casa, rifugio e osservatorio – Intimorito dalla inusitata presenza di quelle uniformi e a scanso di maggiori complicazioni, seppure appena intuibili, me ne scappai verso casa, seguito da una vociante combriccola di monelli che, schiamazzando e spingendosi nella corsa, scomparvero per i vicoli stretti del paese. Salii affannato le scale di casa, passai veloce davanti a mamma Gigetta che stava cucendo, scartai elegantemente la Persè intenta in cucina e andai ad appostarmi dietro le persiane della camera che dà sulla piazza principale. Comodo osservatorio dal quale – essendo la stanza d’angolo – potevo tenere a bada la piazza e la via di accesso dalla parte del mare. Ben presto al primo squadrone di militari se ne accodarono altri, ugualmente laceri e sfiniti, alcuni con una benda sul capo o un braccio al collo, man a mano che entravano in paese. Con l’avanzare del giorno, cominciarono ad arrivare confusamente camionette, ambulanze e un paio di carri armati che andarono ad appostarsi ai lati della Porta del Cassero; da qui potevano agevolmente controllare la prospiciente collinetta di San Nicolò e la strada, che serpeggiando tra i colli si snoda in direzione di Macerata e dei Sibillini.
Paese in festa – Il paese sembrò ridestarsi improvvisamente dal torpore e cominciò una strana agitazione fatta di curiosità e diffidenza. Alcuni si azzardarono a scendere in piazza, sorpresi dalla presenza di gente in uniforme, gente che parlava una lingua poco familiare, ma con una voglia matta di comunicare. Dalla zona alta del paese si udivano le sporadiche cannonate dei due tank che tenevano sotto tiro i crucchi in ritirata. Non ci facevano caso i popolani festanti. Al fragore delle bordate, in verità isolate e sparate a intervalli, si unirono le grida e le acclamazioni della gente che, uscita fuori dalle abitazioni, prima con una certa cautela e circospezione, poi sempre più disinvoltamente, si accalcava con grande curiosità attorno ai pochi mezzi che stazionavano al centro della piazza. “I Liberatori… è ‘rriati li Liberatori… Viva i Liberatori… È finita la guèra…!” – si gridava da più parti. Alcune donne lanciavano fiori, altre si lasciavano abbracciare e baciare da quegli uomini sporchi e inebetiti dalla fatica… “È ‘rriàti finarmente!”.
Il tricolore – Nell’euforia del momento, nessuno badava al pericolo di un possibile quanto improbabile ritorno di fiamma dei tedeschi in rotta verso le montagne. Sembrava fossimo usciti da un incubo senza fine e si respirava un’aria di leggerezza e sollievo. Si vedevano volti accaldati e sorridenti. Improvvisamente dalla Torre si levò uno scampanio festoso, che andò a coprire lo strepito dei cannoncini di piccolo calibro del Cassero. Qualcuno provvide a installare il tricolore sul balcone del Municipio. Seguitava ad arrivare gente, donne, ragazzi, agitando fiori di campo verso i mezzi militari, sulle cui fiancate spiccava il simbolo di un pino verde sul fondo di un cerchio bianco. Alcuni offrivano da bere. Poi si sparse la voce che i Liberatori, nella circostanza, erano soldati polacchi della “Divisione Pino” divenuta celebre per aver più volte occupato – per prima – i territori abbandonati dai tedeschi in fuga. Nella serata, il comando polacco installò il nuovo ospedaletto sempre nei locali delle Scuole Comunali, così com’era accaduto in precedenza con le altre truppe di occupazione.
Goffredo Giachini
9 novembre 2021