Montelupone, gli occupanti tedeschi e le bande di ragazzini “sgonfiatori” di gomme

Durante l’ultima guerra non sempre l’esistenza era tutta rose e fiori, voglio dire idilliaca,  quasi spensierata, ma parentesi brutte se ne ebbero molte, specie in concomitanza con il permanere del corpo di sanità tedesco in paese. Ricordate l’episodio del letto co’ lo prete nella stanza requisita dal Comandante Kruger? 

Mancavano i generi alimentari di prima necessità, ma la fame vera non la si provò quasi mai, perché, data la vicinanza della campagna e la saggia previdenza delle varie “Persè” del posto, pane, latte, frutta, polli, salumi si potevano trovare con una certa facilità. O perlomeno per noi ragazzi c’era sempre qualcosa da mettere sotto i denti.

Il pane, a esempio, si faceva in casa con il supporto di antiche madie (le màttere) dove le donne – dopo aver mescolato ed elaborato a lungo farina e acqua – lasciavano l’impasto a riposare per una nottata. Una volta lavorati  a forza di braccia, i pani o meglio le pagnotte si facevano lievitare accanto al calore dei camini e quindi – al mattino presto – le stesse donne di casa si avviavano verso l’unico forno a legna esistente in paese, con  tavole colme di pasta gonfia, coperte da candidi lini e tenute in bilico sul cercine in cima alla testa; prima di uscire avevano tracciato con la punta di un coltello due tagli a croce sulle forme del pane.

La crescia – Nell’occasione, con la pasta avanzata, si preparava la cosiddetta “crescia” una larga focaccia rotonda, condita poveramente con sale, cipolla e rosmarino; d’inverno, all’epoca della macellazione dei maiali, si aggiungevano i “grasselli”, pezzettini di lardo di scarto, preventivamente arrostiti e privati del grasso superfluo. Bella, bionda, alta di spessore, croccante, fragrante, la crescia era ben lungi dai pochi centimetri di pasta condita (male!) in voga oggigiorno e confezionata dalla miriade di pizzerie sorte in ogni angolo del mondo. La crescia era una diva di gran classe in confronto alle attuali cugine, appetibili per aspetto e varietà di condimenti, ma scialbe se paragonate alla capostipite della categoria.

Nelle feste ricordate si confezionavano arrosti succulenti di pollo, cosciotti di agnello con patatine, o, quand’era possibile, infornate di pomodori, melanzane e zucchine già invitanti al solo vederle! E nei pomeriggi ricordo merende prelibate, costituite da  fette di pane ricoperte di marmellata fatta in casa, o un carnoso pomodoro spaccato a metà e cosparso di sale.

Paese circondato dai tedeschi – Durante il periodo di permanenza del distaccamento tedesco a Montelupone, ebbero a verificarsi episodi di intolleranza da parte della popolazione. L’esercito della Wermarcht aveva circondato con i mezzi il centro abitato; le porte delle mura del paese, che si affacciano sulla campagna, ai quattro punti cardinali (Il Cassero, Lo Trebbio, Porta della Piana e Porta Emiliani) erano costantemente presidiate da carri armati, autoblindo leggere e camion di varia portata. Lo slargo a fianco della Porta della Piana, già teatro di memorabili partite di calcio (con una palla – all’epoca – un fagotto di stracci o di carta di giornale tenuto insieme da spago annodato) era stato adibito a parcheggio dei camion e delle ambulanze.

Giovani “sabotatori” in azione – Nel corso della notte, noi ragazzini, con la sana incoscienza dei nostri nove/dieci anni (qualcuno anche più grandicello) protetti dal buio completo dell’oscuramento, andavamo di soppiatto tra i mezzi militari a… sgonfiare i pneumatici, premendo con uno stecco gli spicilli delle valvole o tagliuzzando i copertoni con lame di occasione, costituite da pezzi di latta o da coltelli in disuso. Mai alcuno ci scoprì per nostra grande fortuna, forse perché l’entità dei danni era talmente irrilevante, da essere attribuibile più al caso, che non alla mano di tanti sabotatori in erba. Eppure l’azione bellica ci esaltava in maniera indicibile e durante la giornata non si parlava di altro, con circospezione e improvvisi abbassamenti di tono, quando ci si imbatteva in qualche crucco di passaggio. Un“auf wiedersehen” e un sorriso a trentadue denti sbloccavano la tensione e restituivano il senso della realtà a un fatto di per sé risibile e drammatico al tempo stesso. Ci sentivamo eroi irredentisti, tutti tesi a procurare possibili noie e ritardi a quanti avevano osato occupare con la forza il nostro territorio… di giochi! Senza pensare minimamente alle conseguenze, una volta scoperti.

Le lotte fra le bande cittadine – Scorrazzavano in quel periodo, in paese alcune combriccole di adolescenti, denominate: la banda de “lo Trebbio” sicuramente la più organizzata e facinorosa, la banda “Gatto” e banda “Cane” meno fantasiose e guerriere. La banda Cane era composta dai ragazzini bene della borghesia, che si erano trovati quasi costretti a formare un gruppo, per far fronte ai dispetti e alle angherie degli altri, più monellacci e… dimogratichi. Una grande rivalità divideva le tre fazioni e spesso si finiva a cagnare, scappellotti e sassaiole, per motivi futilissimi. Ebbene, in situazioni di emergenza, come potevano essere quelle connesse allo stato di belligeranza seria, con morti o feriti sofferenti ricoverati nel locale Ospedaletto, le tre bande funzionavano in uno stupefacente sincronismo di intenti e di movimenti. Tutti per uno e uno per tutti. A tener testa ai soprusi dell’invasore straniero!

Sabotaggi ai tedeschi ma anche ai “liberatori” – Il bello è che la nostra comune azione patriottica continuò anche dopo l’arrivo dei “liberatori”, con marachelle e piccoli sabotaggi nei confronti dei polacchi prima e degli inglesi poi, che vennero a sistemarsi a Montelupone.

Il rastrellamento – In un pomeriggio di sole, il cielo lavato da un tiepido vento autunnale, al centro della piazza del paese si fermò un camion: scesero dal retro alcuni militari armati di mitra e subito dopo un gruppo di giovani civili dall’aria smarrita e spaurita. Con le mani  incrociate dietro la nuca, furono fatti allineare a debita distanza l’uno dall’altro, sotto i portici del Palazzetto del Podestà, la faccia al muro. I tedeschi presidiarono subito la piazza, impedendo il passaggio a chiunque. Tre di essi, postisi alle spalle degli arrestati, li tenevano a bada con i mitra spianati. Ordini secchi rimbalzarono da un lato all’altro, da muro a muro, da portico a portico. Il paese sembrò fermarsi di colpo intorno alla piazza – nucleo pulsante di vita cittadina – e alcune donne, che si affacciavano circospette dalle viuzze adiacenti, furono cacciate con la mimica o con grugniti incomprensibili che non ammettevano replica. I giovani fermati non erano del luogo ma sicuramente delle zone vicine o forse “rastrellati” cammin facendo.

Il vecchio “Penzieri” – Non si conosceva il motivo di quegli arresti, facilmente arguibile dall’atteggiamento minaccioso dei tedeschi. Un vecchio (soprannominato dai compaesani “Penzieri” per la espressione trasognata che caratterizzava i suoi occhi chiari da miope e una certa aria assente) tentò di avviarsi zoppicando, appoggiandosi al bastone, con il solo intento forse di rientrare in casa. Fu fermato, con piglio deciso, da un imberbe in divisa, che lo fissava con occhio glauco, non certo sognante, ma freddo e inespressivo. Penzieri, stordito e distratto, sul momento non diede peso alla faccenda e rispose ai monosillabi del tedesco con un sorriso, compiaciuto forse per l’attenzione che gli veniva riservata. Il militare, colpito dalla soave espressione  del vecchio claudicante, cercò per quanto poté di fare la “faccia feroce”. Qualcosa – comunque – nel suo proporsi si ammorbidì e lo sguardo, sotto un improvviso barbaglio di sole calante,  si fece più chiaro e trasparente. Il vecchio sorrideva ancora con aria infantile, quando una delle donne presenti alla scena lo afferrò amorevolmente per una manica, convincendolo per il momento a rinunciare ad attraversare il selciato.

E la piazza piombò nuovamente in un silenzio teso e minaccioso. Venne il crepuscolo e si accesero fiocamente i lampioni in ferro battuto posti ai lati del loggiato. Il camion tornò prima di sera e i prigionieri furono fatti salire a bordo. Sembra si trattasse di uno dei consueti rastrellamenti di civili, ordinato dal comando tedesco forse più a scopo intimidatorio che non per colpire (o eliminare) persone inermi. Questo almeno succedeva a Montelupone.

Goffredo Giachini

25 settembre 2021

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