Giovanni Beato insignito del Premio alla Carriera al Premio Internazionale Città di Firenze

È recentissima la notizia che uno scultore che possiamo considerare maceratese sebbene originario di Montelparo – ma a Macerata abita ed è stato insegnante nella nostra Accademia – Giovanni Beato, sia stato insignito nella quinta edizione del Premio Internazionale Città di Firenze di un Premio alla Carriera nella sezione “Letteratura e Cultura”.

Non è riconoscimento di poco conto; ci piace congratularci con l’artista e ricordarne in sintesi l’opera così come descritta nell’Atlante degli Artisti Marchigiani. I maestri di Beato sono stati Fazzini (col quale collaborò dal 1975 al 1977 alla realizzazione del complesso scultoreo La Resurrezione, sito nell’aula Paolo VI in Vaticano a Roma), Franchina, Caron, artisti che hanno preparato in lui quell’humus morale in cui si caleranno le conoscenze tecniche, le esperienze umane e i valori suoi caratterizzanti.

Giovanni Beato

In Giovanni Beato la pittura ha la stessa vitalità e con­sistenza della scultura, e  il segno è e resta, l’unità indissolubile fra dif­ferenti universi linguistici, come misterioso catalizzatore del senso vuoi semiologico, vuoi ontolo­gico, sempre in equilibrio precario e al limite del proprio fluire tra signi­ficato e percezione. In questo senso i guizzi, le scalfitture, le cancellature, evo­cano ciò che lo stesso artista ha definito pre-sculture, intese come un tendere verso, uno sfidare il mar­gine, un superare il limite dal finito all’infinito.

Le sagome taglienti delle sue sculture (ma Beato è anche un ottimo scultore figurativo) s’insinuano nello spazio come immagini residuali, come sco­rie, come materie di una storia che resta volutamente indefinita. Della lezione dell’Informale resta soprattutto la totalità aperta non solo ai percorsi dello sguardo, ma principalmente in un senso che moltipli­ca  possibilità e direzioni, in vista di una possibile rivelazione.  

Come si vede i presupposti intellettuali e filosofici non mancano, eppure l’atto creativo di Beato si risolve nella essenziale sua semplicità formale, oltreché nel fatto di ipotizzare un significato in una cosa che prima era, per gli altri ma non per se stessa, una non-cosa. Essa prende vita quan­do l’artista la assume tra forme che egli definisce “oggetti ideali” derivanti dalle grandi figure classiche del quadrato, del cir­colo, del triangolo, nelle loro infini­te variazioni.

Ciò che conta per Beato sono soprattutto gli oggetti che non sembra possibile afferrare. Egli concentra la sua attenzione sulle cose marginali, quel­le di cui nella quotidianità si coglie appena la presenza ma che diven­gono insostituibili una volta poste in un loro sito ideale.

Lucio Del Gobbo

16 settembre 2021

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