Goffredo e Aida finalmente sposi felici: il viaggio di nozze in Istria con la Fiat 850

Dopo un breve periodo di fidanzamento, il matrimonio un 18 aprile di tanti anni fa nella chiesa dei Frati Cappuccini, nei pressi della stazione ferroviaria di Macerata. La notte precedente era diluviato con accompagnamento di tuoni, saette e con raffiche di vento che pareva volessero sradicare i superbi alberi del viale sotto casa. Poi, come spesso succede, alle voci di tempesta era subentrata una mattinata adamantina, una sinfonia di colori, un cielo pulito e trasparente come un cristallo lavato.

In partenza – Dopo la cerimonia e il consueto pranzo con un ristretto gruppo di parenti e amici, decidemmo di partire per l’Istria nel primo pomeriggio del giorno stesso. Mia moglie (che suono strano, i primi tempi, questo vocabolo entrato nel lessico degli affetti quotidiani!) aveva alcuni zii residenti nell’entroterra triestino. Possedevano una casa e una vigna nei pressi di un paesino, identificato nelle vecchie carte geografiche come Rifembergo ma che, dopo la forzata cessione della penisola istriana alla Jugoslavia, era tornato alla originaria denominazione toponima di Branik. Un nome duro, aspro, come le natura del luogo. Pareva che i governanti del dopo-Tito (1966) avessero intenzionalmente voluto estirpare la radice austro – ungarica contenuta  nell’etimo di molte  località della zona. Gli abitanti, come avemmo modo di constatare, parlavano comunque un musicale dialetto mistilingue, retaggio di tanti anni di convivenza a fianco delle popolazioni venete.

Aida e Goffredo

La Fiat 850 nuova di zecca – Ero partito, confesso, con un atteggiamento di timorosa sfida, a bordo di una macchina nuova di zecca, comperata alla Fiat proprio in occasione del matrimonio: una sbarazzina, giovanile 850 dalla carrozzeria color acquamarina avuta in permuta con altri mezzi di nostra proprietà. Prima tappa a Trieste, una necessaria parentesi distensiva dopo la sgropponata tutta di un fiato, lungo la Romea, da Macerata alla splendida città portuale del nord est, attraversando i lidi ferraresi, la laguna veneta, Venezia ecc.

Trieste – Dignitosamente decadente – negli anni sessanta – Trieste aveva l’aspetto di una nobildonna dell’altro secolo, altera e ricca di un passato che difficilmente poteva nascondere. Ci accolsero i parenti del posto con un calore e una amorevole premura da lasciarmi all’inizio stupito e imbarazzato per tanta affabilità. Dormivamo in un vecchio stabile, lungo una delle ripide salite che da piazza Oberdan portano verso Opicina. Il palazzetto, dal vago sapore liberty, con i pavimenti in scricchiolante parquet e i soffitti altissimi, era stato sede del Conservatorio di musica per i ragazzi di etnia slava residenti in territorio italiano. Sembrava aleggiassero nelle ampie sale accordi e arpeggi polverosi e rievocanti risonanze antiche. I finestroni, dai vetri appannati, lasciavano filtrare una luce lieve e affettuosa come una carezza, tra il profumo resinoso dei legni e quello più dolciastro delle cere da pavimento.

Ryjeka – Un paio di giorni di sosta, poi via per le zone riarse del Carso; dovunque ci fermassimo (Postumia, Bled, Lubiana stessa ) venivamo circondati da capannelli di persone che si mettevano a curiosare intorno alla macchina, commentando la novità assoluta per quelle zone. A Ryjeka (Fiume) scendemmo in uno degli hotel di lusso della riviera. Con il valore della lira dell’epoca rispetto al dìnaro potevamo darci arie da “americani”. I soffitti delle stanze erano infiniti, con il solo spazio occupato dal bagno ci sarebbe uscito un comodo appartamentino bicamere, con servizi e accessori. Dopo una prima nottata di imbarazzo, dovuta anche alla novità degli ambienti  esageratamente sontuosi, preferimmo dirottare per un più moderno e sobrio motel costruito sulle rocce a picco sul mare.

Lubiana – L’appuntamento a Lubiana era nel centro della città, nei pressi del Teatro di Stato dove recitava il marito della cugina Sylva. Questi, in qualità di attore dello Stabile, poteva godere di un tenore di vita più che dignitoso, nonché della proprietà di una abitazione. Arrivammo a Lubiana nella zona e all’ora concordate per l’incontro, mentre imperversava un acquazzone da tregenda con raffiche di vento e tuoni. Aida, che masticava un poco della lingua locale, chiese a un vigile, lustro di pioggia nonostante il riparo di una piccola garitta, dove fosse il Teatro Nazionale.

Il vigile – Questi ci diede le necessarie delucidazioni, ma purtroppo, vuoi per la scarsa comprensione della lingua, vuoi per la visibilità azzerata e il fragore della pioggia battente, facemmo alcuni giri viziosi, transitando con la macchina più e più volte davanti al pizzardone, che, esterrefatto, ci guardava a ogni passaggio, insospettito dall’inusitato comportamento di quella coppia di stranieri… E noi giù a ridere come incoscienti! Alla fine, dopo il quarto passaggio, riuscendo a farci intendere, chiarimmo l’equivoco sorto per la erronea interpretazione del luogo dell’appuntamento. Il vigile, sotto il rumore della pioggia, equivocando che cercassimo l’indirizzo dell’Opera di Stato, aveva continuato a spedirci in tutt’altra direzione. Ci accorgemmo invece che eravamo lì, a due passi dall’oggetto delle nostre ricerche e decidemmo di posteggiare poco distante.

Al ristorante – Ci fermammo a cena al ristorante dello “Sloan” una specie di grande emporio che inglobava vari servizi, tra cui anche quello della ristorazione. La cugina Sylva – che, nel frattempo ci aveva raggiunti con il marito  –  ordinò, fra l’altro, una bistecca alla tartara e, distratta dalle inevitabili chiacchiere, ne ingollò, senza riflettere due o tre forchettate. Restò a bocca aperta, strabuzzando gli occhi, le labbra riarse dal peperoncino e altre spezie copiosamente mescolate al trito di carne cruda, base dell’intingolo. Il cameriere spiegò, poi, che la dose servita era destinata ai quattro commensali e andava consumata con le dovute cautele!

L’accoglienza a Branik – Successivamente facemmo tappa a Branik  presso una zia di Aida già avanti negli anni, ospitati in un accogliente casolare di campagna, caratterizzato da pavimenti e pareti di legno profumato, le rampe di scale dai ripidissimi gradini, i soffitti rustici dalle squadrate nervature dei travi e suppellettili dai disegni come pitture naif. I vicini vennero a porgere i loro omaggi con una deferenza ed un rispetto di antico stampo e ci offrirono, con altre primizie, grappa di casa limpida come acqua di fonte, ma forte come acciaio rovente. Stanko, coriaceo agricoltore dalle spalle curve e dai bicipiti nervosi, si sbellicò dalle risate nel vedere la mia reazione, alla prima incauta sorsata della bevanda di fuoco. Aveva detto, nel dialetto veneto/slavo porgendo i bicchieri: “La beva, la beva tranquilo, la va in corpo come acqua distilada…”.

Momenti ed emozioni da ricordare – Aida, gli occhi lucidi di commozione alla vista dell’audace e possente ponte della ferrovia che quasi sovrastava la casa, salutava con ampi gesti delle braccia – quasi fosse una vecchia amicizia ritrovata – lo sferragliante convoglio con locomotiva e pennacchio di ordinanza, che percorreva la strada ferrata. Andammo a far visita ai morti nel piccolo cimitero di paese. Facemmo straordinarie foto nei campi, in mezzo a una distesa di fioriture dalle indescrivibili tonalità giallo-oro, e sotto pergolati di glicini profumatissimi e debordanti oltre i graticci. Mangiammo da scoppiare e bevemmo un latte cremoso e fragrante in una locanda sommersa dalla variegata tavolozza della primavera, tra i canti e le strofette ammiccanti di un coro locale, ingaggiato dalla cugina per la circostanza. Zia Marija, zio Bepi, Sylva, Giulio… gente nuova e come conosciuta da sempre. Quante persone care scomparse nel vortice del tempo!

Sulla via del ritorno – E venne l’ora di riprendere la via di casa. Tappa a Pola, e poi su  per la costa occidentale dell’Istria, lungo una litoranea che  offriva, a ogni curva del percorso, paesini e panorami da  cartolina. Seguendo le indicazioni degli scarsi cartelli stradali, dopo aver affrontato una specie di tratturo tutto buche e fossi, visitammo uno straordinario villaggio dell’entroterra i cui abitanti si erano specializzati nella lavorazione del ferro. Borchie, cancelli, portavasi, alari, grate da caminetto, lampadari, arnesi di tutti i tipi, proposti ai passanti in una ordinata folclorica confusione. L’energia alle forge veniva fornita da un rumoroso torrentaccio a lato della strada principale che, nella discesa turbinosa, serviva a muovere una ruota di mulino. Ci fu indicato poi un villaggio ‘fasullo’, un set cinematografico che gli americani avevano ricostruito sulle propaggini rocciose della costa per le riprese del film “I Vichinghi”.

La maledizione… sulla macchina fotografica – Con la Petri FS a tracolla scattammo molte pose (Aida e me, io a lei, una con l’autoscatto, in un tenero abbraccio). Allo sviluppo del rullino, amara sorpresa: non ce n’era una buona!  La pellicola doveva aver preso luce, oppure, secondo la gente del posto, era il rifiuto del luogo a quella presenza estranea che rendeva vano ogni tentativo di fissarne il ricordo su una pellicola. Tante stranezze e di ogni tipo si erano verificate nel corso del tempo…

La 850 fa i capricci – Facemmo sosta nel cosiddetto “Fiordo di Lemmj”, una formazione particolare del litorale istriano in cui l’acqua salmastra s’insinua per dodici chilometri nel ventre della terra aspra e rocciosa; la costa con le pareti a strapiombo, come un paesaggio scandinavo, si allarga a V in un abbraccio voluttuoso con il mare. L’onda lunga, arriva smorzata e innocua. Prima di arrivare all’albergo costruito sul vertice dell’insenatura, il motore della nostra Fiat ci piantò di botto e, per un centinaio di metri dovemmo spingerla a mano, aiutati da un gruppo di omaccioni, scalmanati e vocianti, i quali, rivelatisi poi come elementi dell’equipaggio di un mercantile di stanza nel porto di Trieste, si profusero in mille cortesie e attenzioni. Avevano fatto il tragitto dalla darsena triestina al fiordo, per degustare i piatti di pesce (ostriche, granseole, peoci, gamberoni) preparati dallo chef dell’albergo, la cui rinomanza aveva superato i confini naturali della penisola istriana.

Un marinaio diventa meccanico – Constatarono che il guasto al motore dipendeva dal cedimento di un piccolo incastro a  mezzaluna che teneva fissata al motore la bobina della dinamo. Uno dei marittimi, con pazienza e perizia, trovata una chiave yale, tagliò, limò, rifinì la mezzaluna con attrezzi rimediati sul posto e riuscì a rimontare il pezzo avariato. La felice impresa fu celebrata con una solenne collettiva bevuta di spumante e slivovitz offerti alla combriccola dagli sposi novelli. I quali, stanchi e contrariati dall’inconveniente alla macchina, lasciarono i marinai a festeggiare il giorno di libertà fino a tarda notte. Ma un’altra impresa aspettava anche me, per il confronto serrato con un “piumone” insufficiente e troppo ingrato per i miei gusti tradizionalmente italici e paesani: sul letto i piedi rimanevano inesorabilmente allo scoperto, invece Aida, che conosceva la praticità e il conforto delle piume d’oca, riposava tranquillamente. Come Dio volle, il mattino seguente partimmo di buonora, quasi presagendo una possibile replica del guasto. E così fu.

Nuova rottura in luogo sperduto –  Fatta una dozzina di chilometri a velocità ridottissima per evitare buche e sobbalzi, con un orecchio costantemente teso al borbottìo del motore, sentimmo uno schianto sospetto sul retro della carrozzeria (la 850 era il modello Fiat con il motore nel vano posteriore) e fummo costretti a fare sosta in una zona dai contorni aridi, immersi in un silenzio innaturale. Spingemmo la macchina su un lato della carreggiata, in attesa che transitasse qualche anima buona. Aspettammo un paio d’ore che volasse una mosca o che si udisse un accenno, un rumore, un respiro, a indicare la presenza di un essere umano. Solo il bisbigliare del vento leggero sui dossi pelati, nei primi tepori della primavera e il volo disordinato dei rondoni o di un gabbiano disperso. Aida con serafica flemma, abbassato lo schienale del posto di guida e armeggiando nei meandri dell’ampia borsa al seguito, tirò fuori il necessaire e si immerse nella cura delle unghie delle sue belle mani. Ostentava disinteresse, quasi accettando con rassegnata compostezza l’avverso destino che si era accanito contro di noi. Che c’entrassero in qualche modo gli influssi malefici dei fantasmi del villaggio vichingo?

Finalmente arriva qualcuno – Finalmente lo strepito di un motore. Ci affianca un camioncino cigolante, a un mio cenno rallenta, si ferma accanto a noi. Ne scende l’autista, grosso e rubizzo, con due baffoni da tricheco sporchi  di nicotina. Parla benissimo l’idioma musicale delle Venezie. Gli spieghiamo cosa è accaduto e quello, senza troppi fronzoli, mi invita a salire a bordo al suo fianco, spiegando che a una diecina di chilometri si poteva trovare un meccanico… Forse! Dopo il breve tragitto compiuto tra mille scuotimenti e curve accidentate, arriviamo in un piccolo agglomerato di campagna. Quattro case, la chiesa, il “palazzo” del Comune.

Il meccanico – In una viuzza, scoviamo una specie di officina dove compare il sospirato meccanico, quasi confuso e mimetizzato tra una congerie di attrezzi agricoli e di vecchie carcasse, semi nascosto dalle sculture di arrugginiti trattori probabili reperti del passato. L’individuo, gentilissimo, ascolta prima me, poi le spiegazioni nell’idioma locale da parte dell’autista del macinino. Ripartiamo tutti. Noi sul camioncino e dietro il meccanico a cavallo di una motocicletta B.S.A. di annata. Raggiungiamo abbastanza rapidamente il posto dell’incidente. Il meccanico esamina con attenzione il motore della 850, farfuglia qualche strana espressione in dialetto e, con gesti decisi, inizia a smontare la dinamo. L’autista dai baffi spioventi, quasi si schermisce quando ci profondiamo in ringraziamenti per quanto ha saputo fare nella circostanza e con l’autocarro sferragliante prosegue per la sua strada. La provvidenza ha davvero cento risorse. Aida si è messa a leggere un libro. Torniamo in paese con la moto, io a cavalcioni sul residuo di un sellino posteriore.

La ricostruzione artigianale – Il meccanico si è portato appresso il blocco della dinamo. Lo osservo mentre prende le misure, sagoma un pezzetto di acciaio, una unghia di metallo che arroventa, batte sulla incudine, stempera in una tinozza di acqua; controlla ancora le dimensioni, alla fine trae dalla fiamma con lunghe pinze l’incastro mancante. Ripartiamo sulla spetazzante motocicletta d’epoca,  per raggiungere l’auto ferma sul bordo della carreggiata. Il pezzo, rifatto da questo artigiano di una sconosciuta località dell’entroterra istriano, s’inserisce a meraviglia nella intacca del motore. Proviamo. Il cuore della 850 riprende a pulsare. Dò due colpi di acceleratore, quasi a tentare la resistenza del manufatto.

La generosa mancia – Il meccanico si asciuga il sudore pienamente soddisfatto del piccolo capolavoro. Poi, con atteggiamento esitante e timoroso, chiede per lo scomodo l’esorbitante compenso di… seimila dìnari! che, negli anni sessanta, erano l’esatto corrispondente di tremila lire italiane! Lo accontentiamo con una carta da cinquemila, rifiutando ovviamente il resto. Guardo l’orologio: sono quasi le due del pomeriggio. Cinque ore di sosta e siamo a digiuno! Il meccanico, gli occhi vivacissimi nella maschera crostosa di olio e polvere, non finiva più di ringraziare, mescolando espressioni nelle due lingue d’uso. Mancò solo che ci abbracciasse, palesemente grato e commosso per la nostra magnanimità. E tenne una mano alzata in cenno di saluto finché – salito sulla rombante B.S.A. da collezione – non scomparve dietro una curva.

Stupore dei meccanici Fiat – Di ritorno a Trieste, passammo alla filiale della Fiat dove le maestranze effettuarono un accurato controllo dell’auto e una riparazione ad hoc. I meccanici dell’officina non volevano credere che un loro emulo (!), fortunosamente pescato fra le pieghe di un paesaggio anonimo e scabro come quello  delle doline del Carso, fosse stato in grado di ricostruire manualmente un pezzo di ricambio così calibrato, quasi identico all’originale della fabbrica torinese. 

Goffredo Giachini

13 maggio 2021

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