Non ho mai giocato a tennis, eccettuate un paio di goffe esibizioni da principiante in un campetto di cemento che molti ricorderanno ubicato in via Morbiducci, in uno slargo dove oggi sorge l’ampio cratere del Monumento alla Resistenza.
Il fanatico tennista – Mario C., al contrario, era fanatico del tennis, uno di quelli che non prendendo la racchetta in mano, almeno tre volte a settimana, perdeva il lume della ragione. Quasi un’esigenza fisiologica. Andammo insieme a Battaglia Terme per le cure termali. Non appena giunti a destinazione, la prima preoccupazione per Mario C. fu quella di trovare, entro il perimetro dello sparuto agglomerato di case, un campo su cui esercitare questa sua passione.
Il viaggio – Avevamo viaggiato in macchina tutta la mattinata, prendendocela comoda, con partenza da Macerata all’incirca verso le nove. Mario aveva preferito evitare la bolgia e le ansie del traffico autostradale deviando, a Ravenna, per la “Romea”. Dopo le consuete tappe lungo il tragitto per soddisfare le ineludibili necessità corporali, dovute anche all’età e alla posizione non troppo anatomica dei sedili della Prisma, percorremmo un ombreggiato tratto trasversale che immette da Chioggia sulla statale delle Terme Euganee, nostra meta. Un giro volutamente vizioso, perché Mario snobbava itinerari e percorsi obbligati e detestava vincoli e scadenze, come ebbe modo di dimostrare in più di un’occasione nelle due settimane che trascorremmo insieme presso lo Stabilimento di Battaglia Terme.
Lo stabilimento termale – Gestito direttamente dall’Inps – come quello di Salsomaggiore – si rivelò come posto tranquillo dove non transitavano tanti ospiti come in precedenti occasioni di cure. Gli orari tuttavia erano i medesimi, i ritmi della giornata gli stessi, le terapie molto più accurate che in altre strutture, forse anche per il minor carico della clientela; la prima impressione, comunque, era quella di essere capitati in un collegio o peggio in una caserma militare. Mancava che a ore fisse suonassero campanelli, si intrecciassero ordini o squillasse la tromba in cortile e tutto sarebbe quadrato alla perfezione. Il mangiare era saporito e abbondante, anche se la cucina veneta mai raggiungerà gli aromi e la corposità dei ragù di quella romagnola! Intorno allo stabilimento tanto spazio verde e aria pulita. Ma non c’era un campo da tennis…
Gli “Alberghi”… – Eravamo arrivati a destinazione verso le quattro del pomeriggio, ci presentammo in portineria giusto in tempo per avere una stanza tutta per noi. Dopo il disbrigo delle consuete pratiche burocratiche dell’accettazione, Mario si mise alla ricerca di un circolo tennis, ma a Battaglia – ci disse l’unico commerciante di articoli sportivi reperito in loco e interpellato in merito – non avremmo trovato nulla di tutto ciò. Sulla porta, uscendo, come colpito da un’idea improvvisa, l’uomo ci suggerì di provare …agli “Alberghi”. Lo disse, anzi lo sussurrò con una certa aria di complicità e spiegò, sempre circospetto, che si trattava di tre grossi complessi costruiti ai piedi dei Colli Euganei dai tedeschi, che, notoriamente, frequentano per cure la zona del padovano. “Provateci – aggiunse – ma non sarà facile l’accesso… gli italiani non sono ammessi a frequentare certi ambienti…”. Perché non tentare?
Il “Metropole” – Dopo tutto un rifiuto non avrebbe certo urtato la nostra suscettibilità. Così, di primo impulso, senza neanche disfare i bagagli, ci avviammo verso i Colli Euganei, gli unici rilievi della zona che disegnano il loro morbido profilo sullo scenario del panorama. E ci trovammo di fronte al “Metropole” – di certo il primo dei tre Aberghi – solenne e austero con i suoi dieci piani, come una cattedrale gotica. Era circondato da una robusta recinzione in ferro infissa su un muretto di cemento armato a bugni sporgenti, per uno sviluppo di 3 – 4 metri in altezza. A lato dell’ingresso una garitta a vetri, dominante sul piano stradale, all’interno della quale troneggiava un guardiano in divisa grigia e berretto gallonato. Mario C. rallentò la marcia della Prisma e il suo sguardo incrociò per un attimo il mio.
L’aspetto da crucco – Immagini di ben triste memoria attraversarono le nostre menti. “ Accidenti – esclamò Mario quasi mi avesse letto nel pensiero – sembra la recinzione di un lager! Che facciamo Goffrè? Torniamo indietro o proviamo a varcare la fatidica soglia?” Non attese risposta. Anzi, mantenendo lo stesso colore di voce, ma abbassando i toni, lo sguardo fisso dinanzi a sé, aggiunse: “Tu fa finta di niente… l’aspetto da crucco più o meno ce l’hai …non dire parola e saluta con spocchiosa indifferenza…” Giunti a ridosso della garitta, Mario abbassò di alcuni centimetri il finestrino, e sostenendo lo sguardo indagatore del portiere, si profuse in un sorriso stereotipato e disarmante a trentadue denti. Io, d’istinto, cercando di mantenere un’espressione amorfa, chinai il capo in un cenno di deferente ossequio… all’autorità, rappresentata, nell’occasione, da un custode inorgoglito dai gradi del berretto paramilitare e dalla posizione sopraelevata.
Il cancello si apre – Il piantone gallonato, evidentemente convinto dal nostro atteggiamento di aver a che fare con nuovi clienti, salutò militarmente portando la mano alla visiera e, senza pronunciare verbo – ché tanto non avremmo compreso un’acca – premette un bottone. D’incanto, dinanzi a noi, si spalancò il cancellone scorrevole. Ce l’avevamo fatta! Mario diede un leggero colpo di acceleratore, mascherando un sorrisetto di soddisfazione. All’interno ci accolsero ampi vialoni ombreggiati da cupole di pini, da magnolie lussureggianti e da acacie svettanti. Sui prati accuratamente rasati, zampillavano cento fontanelle artificiali. Pochissima la gente in giro. L’immediata impressione fu quella di una straordinaria quiete rilassante. Poi, dopo una curva e un’alta siepe di bosso, il contorno della struttura alberghiera ci apparve in tutta la sua magnificenza. Un galoppatoio sulla destra su cui caracollavano eleganti cavallerizze in uniforme, sotto la guida di un istruttore inamidato e perentorio nei gesti e nella voce. Più in là si intuiva un’ampia distesa di “green” dove si esercitavano golfisti ancora impacciati nei movimenti. E finalmente i tanto desiderati campi da tennis: tre in tutto, allineati, curatissimi e geometricamente perfetti, con il fondo in terra arancione, resa più rossastra dalla luce trasparente del prossimo tramonto.
Ottenuto il “passing” – Mario si avvicinò agli spogliatoi, apostrofato in tedesco da un fustacchione palestrato che chiese, probabilmente, le ragioni della nostra presenza. La risposta fu in perfetto idioma nazionale e il moro, abbrustolito dal sole, in canottiera e calzoncini candidi, si sciolse in un sorriso smagliante, ben lieto di poter “ciacolare” con due compatrioti in un universo pieno di èrre raspose e di espressioni gutturali. Simpatizzammo subito e – dopo questo primo approccio – Mario C. ottenne un regolare passing per accedere ai fatidici campi non senza aver allungato al giovanotto un paio di bigliettoni.
Le vogliose “frau” – Non passava giorno senza che l’amico, dopo i bagni e gli sfumenti curativi, si recasse al “Metropole” dove, oltreché cimentarsi con le racchette, ebbe modo di conoscere le clienti dell’hotel, gentili corpulente frau vogliose di possibili distrazioni con un maschio italico, seppure di mezza età, e pronte a ridere scompostamente alle battute di spirito più insulse, magari sotto gli effetti di un Prosecco tirato su dalle fresche cantine del luogo. Credo che Mario abbia potuto assaporare anzitempo i benèfici risultati di una cooperazione unitaria a livello europeo, senza più barriere e confini doganali. Poche volte fui chiamato a collaborare, in considerazione del fatto che, avendo poca dimestichezza con l’esclusivo mondo del tennis, difficilmente avrei potuto inserirmi in combinazioni interpersonali fatte di linguaggi esclusivi e di strani cenni di intesa.
Le cure e le gite – Nel corso delle mattinate ci sottoponevamo con diligenza ai bagni di acqua solforosa e alle manipolazioni di muscolose e profumatissime assistenti. I camerini dei massaggi erano perennemente pervasi da un mix di odori e afrori fatti di borotalco, sudore, olio canforato, colonie costose, con le quali le infermiere si inondavano i possenti pettorali. A volte si facevano veloci visite turistiche in quel di Padova e dintorni, usufruendo del treno o di un bus che aveva il capolinea proprio di fronte allo stabilimento. In un clima vacanziero e rilassante che poco o nulla aveva di assillante e di terapeutico.
Venezia – Una domenica, in cui non si effettuavano cure, mettemmo in programma una gita in treno a Venezia. Non era una giornata troppo soleggiata e scrutavamo preoccupati il cielo grigio e imbronciato. Piuttosto che avventurarci per ponti, rii e calli e giusto per contravvenire una volta tanto alla consueta passeggiata fino a piazza San Marco, decidemmo d’impulso di prendere il vaporetto ed arrivare al Lido, così per puro sfizio, per renderci conto di cosa fosse mai questa lingua di terra avulsa dall’agglomerato urbano, in cui – in determinati periodi dell’anno – si svolgono manifestazioni mondane di rinomanza internazionale, con l’intervento di noti personaggi del jet set, dello spettacolo e della moda. Dopo l’attraversamento del canale della Giudecca, sbucammo al “largo” dove ci accolse un mare spumoso e frastagliato; correnti d’aria improvvise costringevano i passeggeri a restare all’interno del natante. Su, in alto, il cielo era perfettamente spaccato in due: verso la città lagunare si apriva in una distesa di un azzurro malaticcio screziato da rari batuffoli di nubi grigiastre. Verso il largo era una coltre nero/pece, consistente ed omogenea, che non lasciava presagire nulla di buono.
L’americano – E infatti la pioggia arrivò all’improvviso con grossi goccioloni e boati di tuono che si facevano sempre più insistenti e vicini, man mano che il battello avanzava. Un signore dai tratti anglosassoni e forse del nord America, incurante delle folate d’aria e degli spruzzi d’acqua che lo investivano da ogni dove, era rimasto all’esterno, sul ponte. Non sentiva o fingeva di non udire i frequenti inviti a rientrare rivoltigli da una truccatissima signora, presumibilmente sua compagna di vacanze. Divorava con evidente gusto un frutto e beveva a tratti da una lattina di Coca Cola, sedendo pericolosamente a cavalcioni sulla murata. Cominciò a cantare a squarciagola “Volare”, ridendo e divertendosi un mondo al quadro complessivo della situazione, osservando l’aspetto della laguna, così diverso e stravolto rispetto a quanto letto sulle pubblicazioni turistiche e di cui probabilmente aveva sentito raccontare mirabilia. Indossava una impossibile camiciola estiva, con disegni di donnine nude in pose diverse e la leggera stoffa, intrisa d’acqua, gli si era appiccicata addosso come una seconda pelle. Seguitava a ridere come un incosciente, masticava e sputacchiava le bucce in mare, sempre inseguendo e stonando la canzone di Modugno. Finalmente si lasciò accompagnare all’interno, seguendo i consigli della moglie, ma soprattutto dietro gli insistenti inviti del personale di bordo, che vista l’inclemenza del tempo temeva, conseguenze ben più serie per il comportamento del turista.
La “barbona” – Arrivammo finalmente a terra. Appena sbarcati ci toccò di assistere a una scena che, per colmo di iattura, sembrò contraddire di colpo l’innata cortesia e l’usuale comportamento dei veneti, tutto ciò insomma che, con la musicalità del linguaggio, contribuisce a caratterizzare gli abitanti della regione e quelli di Venezia in particolare. Pioveva adesso a dirotto e avevamo trovato riparo sotto il tendone/tettoia all’ingresso di un bar/tabaccheria. Il titolare dell’esercizio, un signore corpulento in giacca e cravatta, contrariato forse dal maltempo che pareva non cessare e che non favoriva di certo gli affari, stava invitando una “barbona” ad allontanarsi con i suoi stracci dalla porta del bar. I modi non potevano dirsi improntati a cortesia. La donna, bagnata come un pulcino, in apparenza ancora giovane, con addosso un cappottaccio sdrucito che aveva perso ogni sesto e grazia, fumava una cicca cercando di togliere via l’acqua dai capelli raccolti in una lunga treccia incolore. Impacciata nei movimenti e quasi ignorando gl’improperi che la stavano investendo, rispondeva a monosillabi tra spire di fumo, ma non sembrava volersi muovere dal riparo occasionale.
Il tavolino volante – Il padrone della bottega continuava a blaterare, con toni sempre più accesi e rabbiosi, cercando di convincere la poveretta ad andarsene. Niente da fare. D’un tratto, dall’interno del bar, sbucò come una furia un giovanotto, forse un cameriere o un banconista in maniche di camicia e grembiulotto ruggine legato in vita. Questi, travolgendo nella sortita il principale fermo sulla porta e senza pronunciare verbo, afferrò a volo un tavolino tondo in plastica lasciato sotto la pioggia battente. Ignorando il capannello degli involontari spettatori e sempre in un silenzio rancoroso e pieno di perfida rivalsa, scagliò il tavolinetto contro la barbona che riuscì ad evitare per un pelo, ma non del tutto, l’insolito proiettile. La vedemmo infatti portarsi le mani al viso e tra le dita comparve un rivolo di sangue.
L’epilogo – La donna, subito circondata da persone premurose, fu accompagnata in una Farmacia lì nei pressi per le cure più immediate. Un ragazzino, raccolta da terra la sacca di plastica da cui sbucavano povere cose, unico bagaglio a testimoniare una quotidianità incerta e dolente, seguì il gruppetto che si allontanava. Il cameriere e il padrone del locale, sempre borbottando e cercando di giustificare con la veloce cadenza del dialetto locale il loro insolito comportamento, rientrarono nel bar, chiudendosi rumorosamente alle spalle la vetrina dell’ingresso. Noi preferimmo riprendere il battello per Venezia, occupando tristemente le panche semivuote del ponte coperto, senza nemmeno il coraggio di commentare l’accaduto.
Goffredo Giachini
11 aprile 2021