Il boss e il gorilla – Ospite fisso dello Stabilimento Tommasini di Salsomaggiore era un distintissimo signore sui 60 portati bene – che risultò poi essere di origini calabre – costantemente accompagnato da un guardaspalle ben piantato, non troppo alto, nero come un tizzone e con un paio di occhi a contrastare che pareva non esistessero, tanto erano trasparenti nella loro acquosa azzurrità. Occhi che conferivano al volto una espressione attonita e in apparenza poco partecipe delle vicende esterne. I due si facevano notare per lo stridente abbinamento della longilinea figura del boss, sempre elegante e azzimato in abiti di perfetto taglio maschile, e la sagoma del “gorilla” tracagnotto e molto più ordinario nella gestualità e nel modo di proporsi.
Il “boss” – Il “boss”, con l’andar dei giorni, dava l’impressione di tenersi sempre più in disparte, nel tentativo quasi di mascherare agli altri la sua inconfondibile presenza. Lo si vedeva soltanto a ora pasti, mentre riusciva a confondersi, nel corso della mattinata, in mezzo alla salmodiante pletora degli spettri intabarrati nella spugna degli accappatoi.
Il “gorilla” – Di converso, poco a poco, acquistò spessore e personalità Totònno, lo scagnozzo fedele che, durante le frequenti assenze del principale, si rivelò compagno amabile e spiritoso, ricco di risorse e d’inventiva, inarrivabile giocatore di biliardo e colorito narratore di barzellette nella inconfondibile cadenza del sud.
La sedicente segretaria – Il “principale”, costantemente avvolto da una olezzante nube di Atkinson, amministratore delegato di un’azienda filotranviaria di un grosso centro del meridione, (“u’dderettòre” come lo apostrofava Totònno) sembra che, in onta ai più rigidi regolamenti, neppure la notte stesse nella camera del Tommasini (stanza a due letti), preferendo la più confortevole complice ospitalità di una suite di albergo in compagnia di una sedicente segretaria, appariscente e curvilinea biondona, attillata in costose mise di marca e ingioiellata come una madonna bizantina.
La… copertura – Totònno copriva e giustificava in mille maniere la condotta del direttore, e più di una volta riuscì a riprodurre sul letto accanto al suo la silhouette del capo, con pupazzi fatti di cuscini, coperte e indumenti vari, nel tentativo di eludere le ispezioni che, talora, venivano effettuate a sorpresa dal personale dello stabilimento. Una volta un addetto alla sorveglianza, girando per le camerate in ora notturna, scoprì il giaciglio disfatto, le lenzuola stropicciate, ma dell’illustre ospite nemmeno il profumo. “U’ dderettòre a u’ gabbenetto è ito…Tra poco ‘ccà sta…” rispose senza scomporsi Totònno alla domanda inquisitoria dell’ispettore.
L’apparizione e i tovaglioli in aria- L’ultimo giorno di permanenza a Salsomaggiore, la biondona comparve di botto nel salone/ristorante del Tommasini, in minigonna e con una paio di stivali alla moschettiera che le arrivavano al ginocchio; il passo felpato e un adeguato ondeggiar di chiappe, si diresse decisamente verso il tavolo del suo attempato compagno di… cure. Dopo alcuni istanti di improvviso attonito silenzio, fu salutata da una fragorosa oceanica ovazione di compiacimento da parte dei circa 400 commensali, infoiati dall’atmosfera calda delle terapie e dall’inattesa apparizione della signora, oltreché aizzati da Totònno il quale, con un urlo da stadio, gettò in aria il tovagliolo, ben presto imitato dagli ospiti della mensa. Brindisi e battute estemporanee coronarono l’episodio, inusuale e straordinario anche per il personale di servizio, abituato a ben altre reazioni goderecce. Tutti si fermarono interdetti prima di tornare fra i tavoli a servire la frutta. Il pavimento era ricoperto da una nevicata fuori stagione di bianchi tovaglioli!
Demetrio – Durante un altro ciclo di cure, sempre nello stabilimento Tommasini, mi aggregai a un collega di Matelica, che prestava servizio alla Mutua di Macerata. Questi venne con la sua macchina, un coupé basso e largo sulle ruote, di un colore giallo brillante, che guidava con estrema perizia e un pizzico di incoscienza. Demetrio, in anni passati, era entrato alla SNAM grazie ai buoni uffici e alla influenza di Enrico Mattei originario di Matelica. Pare che molta manodopera proveniente dalle Marche avesse trovato comoda collocazione nei reparti di ENI e sue ramificazioni, proprio dietro la spinta e il diretto interessamento del potente capitano d’industria. Così vero che la sigla SNAM, a conferma delle maligne insinuazioni dei soliti invidiosi, veniva ironicamente interpretata come: Siamo Nati A Matelica… quasi a garanzia di una certezza precostituita.
Un caratteraccio – Abituato a cavarsela da solo (non si era mai sposato), Demetrio, nei lunghi periodi di permanenza a San Donato Milanese, lontano dagli affetti di famiglia, tra usanze e modi di vita a lui poco congeniali, aveva rafforzato un carattere scorbutico e spigoloso, acuito da una impulsività e una repentinità di reazioni che difficilmente riusciva a tenere sotto controllo. Nell’ambiente termale si era attirato le antipatie di quanti avevano avuto modo di avvicinarlo, compagni di cura, personale di servizio, medici e altri della struttura. Era uno scostante per antonomasia, per aspetto e comportamento, uno “zitellone” inaridito e piantagrane, con esplosioni improvvise di un umorismo da caserma, di cui rideva scompostamente solo lui.
Ossequiante rispetto – Trovava da ridire su tutto e tutti, sugli orari delle terapie, sul modo in cui venivano rigovernate le camere, sull’organizzazione del servizio nelle sale ristorante, su presunte irregolarità nei suoi confronti, sulla erronea interpretazione del regolamento interno ecc. Nei miei riguardi, forse per la differenza di grado nell’ambito dell’Istituto – Demetrio era un semplice commesso, io un “capoufficio” – esisteva un ossequiante rispetto mostrato con dignitosa ritrosia e silenziosa deferenza. Fondamentalmente era un timido, mi parve di intuire, che cercava di mascherare la sua poca intraprendenza con atteggiamenti spavaldi e anticonformisti.
Le pasticche – Lo vidi soffrire, in più occasioni, per una sorta di nevrite congenita che lo costringeva ad assumere antidolorifici in dosi massicce. Probabilmente le cure non facevano che riacutizzare questa sua fragilità di fondo. Una volta si confuse in maniera del tutto banale e più tardi, a crisi superata, ne ridemmo insieme: piuttosto che ingoiare due pastiglie di analgesico ogni quattro ore, secondo il consiglio dei sanitari dell’Istituto, ne prese quattro ogni due ore. Ebbe un tremendo collasso con choc anafilattico, svenimento e rigidità muscolare. Fu ricoverato all’ospedale di Fidenza. Quando in piena crisi lo portarono via sulla lettiga piangeva come un ragazzino imberbe e invocava farfugliando il nome di mamma Filomena!
I due siciliani – Avevamo ottenuto come dipendenti INPS, una stanza a due letti, un privilegio riservato ai pochissimi dirigenti che – piuttosto che fruire delle comodità di un Hotel – si adattavano a fare le cure con la plebaglia scalmanata. Ci misero a tavola con due strani individui che suscitarono la nostra curiosità. Con l’andare dei giorni si rivelarono per due siciliani di Enna, orgogliosi e fieri della loro terra di origine. Molto riservati e di poche parole, seguivano la… cerimonia del pasto dei 400 commensali, con sguardi curiosi e indagatori. Mangiavano con avidità, osservando di sottecchi il paesaggio di contorno.
Un’abitudine gastronomica – Ci colpì una loro abitudine. Quando in alternanza ai soliti piatti di pasta venivano serviti gustosi e fumanti minestroni ricchi di verdura, i due aggiungevano al brodo tozzi di pane e una cucchiaiata di vino, meglio se rosso… A volte commentavano a bassa voce e in stretto dialetto quanto accadeva nella sala mensa. Dapprima con Demetrio stemmo sulle nostre, chiacchierando del più e del meno, escludendo con intenzione i “terroni” dai nostri discorsi.
Il bestemmiatore – Anzi, Demetrio per la sua indole battagliera e polemica non perdeva occasione di suscitare battibecchi con le procaci signore del servizio ai tavoli o per attaccar briga con i clienti dei tavoli più vicini. Nella foga delle discussioni il Demetrio sparava parolacce e invettive alternate a sapide bestemmie in stretto vernacolo matelicese, suscitando – a seconda dei casi – risate di scherno o repliche pittoresche nelle più svariate cadenze italiche.
Il sacerdote, Ninuzzo – Dopo alcuni giorni di permanenza i due siciliani, entrambi piccoli e neri come torelli d’allevamento, in netta condizione di sudditanza nei nostri confronti anche a motivo della scarsa prestanza fisica, ebbero un moto di reazione che ci lasciò di sasso. Uno dei due, quello che sembrava l’uomo guida della piccola essenziale società (avevamo appurato si chiamasse Salvo) con un autorevole gesto della mano bloccò la logorrea di Demetrio, si protese sul tavolo, sussurrando sottovoce, ma con insospettata decisione: “La prego di moderare le sue parole e di modificare questo modo a dir poco incivile di dire le cose… Un po’ di rispetto, che caspita! Il mio amico qui a fianco è un sacerdote… Sì, avete capito bbene: prete è… Non porta gli abbiti talari picchè si è voluto confondere, democraticamente, con tutti noi. Don Beniamino, si chiama!”- “Per gli amici Ninuzzo” – soggiunse il don Beniamino tirato in ballo, con un lampo furbo nello sguardo. La cadenza dialettale, sottilmente monitoria nelle parole di Salvo, diede all’espressione di don Ninuzzo un indirizzo di perdono implicito e di accondiscendente comprensione.
Il look – Solo allora concretizzai che alla mia destra sedeva in abiti borghesi un uomo di Dio, un pastore di anime, confuso nell’anonimato di una chiassosa accolita di…peccatori. Lui non indossava il clergyman di prammatica, in alternativa all’abito talare ma jeans, camicia dal collo sbottonato e uno striminzito golfino senza maniche. Le sole particolarità atte a identificare l’uomo di chiesa potevano essere i colori, tutti sui toni del blu e del grigio scuro, nonché una spilletta a forma di croce infilata all’occhiello di un blusotto buttato sulla spalliera della sedia.
L’amicizia e i giri turistici – Dopo la rivelazione, divenimmo un tutt’uno con i commensali siciliani e, fatta eccezione per i turni delle cure che risultavano differenziati nei tempi, costituimmo un’equipe indissolubile anche nei pomeriggi liberi e la domenica, giorno esente da terapie. Insieme a Demetrio, che per i trascorsi di autista e uomo di fiducia di politici e industriali, affermava di conoscere le zone circostanti “come le sue tasche”, compivamo lunghe trasferte in auto, visitando i dintorni di Salsomaggiore, i luoghi verdiani, città antiche, piacevoli e ricche di cultura come Parma, Cremona ecc. Nonostante le dichiarazioni di estrema sicurezza del nostro autista, una volta ci perdemmo nell’intrico di strade sterrate e viottoli di campagna serpeggianti tra gli interminabili filari di frutta della bassa padana. Ci toccò di ascoltare i coloriti improperi che l’autista di Matelica snocciolò, in barba ai suoi compagni di viaggio. Ci spingemmo poi fino a Milano, dove Demetrio volle mostrarci, con malcelato orgoglio e un pizzico di nostalgia, la casa di San Donato dove aveva abitato in tempi non lontani; andammo a vedere persino l’aeroporto di Linate, provincialotti inebetiti dinanzi all’insolito – almeno per noi – andirivieni dei reattori di linea.
La trattoria e la Certosa – Mangiammo in una trattoria tipica dove il nostro accompagnatore fu accolto dalla proprietaria, una matrona rubizza e chiassona, con una straripante cordialità ricca di baci e abbracci tra la meraviglia e lo stupore dei presenti. Un fumante risotto giallo come l’oro coronò la rimpatriata. In altra circostanza arrivammo a Pavia per visitare la Certosa e accontentare le esigenze del prete. Ma non sapevamo che lunedì era giorno di chiusura per musei e luoghi di arte, per cui, con somma disdetta, dovemmo tornare indietro con le pive nel sacco. Non commuovemmo con le nostre suppliche un padre guardiano, enorme nel saio marrone al di là del cancello, il quale, cortese ma inflessibile, si fece riconoscere come nativo di Norcia (quindi quasi conterraneo) ma che non poteva derogare – disse – a precise disposizioni ricevute dall’alto.
Le “grotte” – Capitava, in settimana, che ci portassero a fare le cosiddette “grotte”. Era un servizio che si svolgeva in uno stabile grigio e disadorno, posto in alto, verso la collina, a circa 500 metri dal corpo centrale del Tommasini. Sempre diligentemente e pittorescamente avvolti in bianchi barracani, ci conducevano su con appositi pulmini. Una volta dentro la grotta dovevamo svestirci del tutto e con le reni a malapena coperte da uno striminzito perizoma, entravamo nei meandri semibui. Taluni, senza ritegno – eravamo d’altronde tutti maschi – lasciavano penzolare gli attributi appassiti e teneri, al centro del caldo opprimente dei cuniculi, che trasudavano umidità e vapore dalle fessure della roccia artificiale. Là si doveva sostare per un 20/25 minuti senza parlare, grondando acqua e sudore da tutti i pori, con la sgradevole sensazione di una lenta quanto inesorabile fine per soffocamento. Il cuore batteva in gola come lo stantuffo di una locomotiva in salita.
La sirena – A segnalare la fine della tortura suonava una specie di sirena di allarme; a quel punto irrompevano gli inservienti, grigi e impietosi come demoni danteschi, che ti cacciavano fuori dalla bol-gia ribollente a forza di cortesi… spintoni, costringendoti – a fin di bene – a infilarti in una fatiscente cuccetta appena capace di accogliere l’ingombro di un corpo umano. Si restava così sepolti sotto una pila di coperte ruvide e maleodoranti per un’altra mezzoretta di “reazione” come la definivano gli aguzzini, a sudare copiosamente, a riprendere il ritmo del respiro, riordinando pensieri e sensazioni dopo l’oppressione della cura. Poi di corsa ai pulmini, non senza aver indossato sudaticci e fumanti l’immancabile accappatoio con sopra un ulteriore “lazzarone” scuro a definitiva copertura. Dopo i fatidici 15 giorni di cure, si rientrava in sede, alleggeriti e spurgati da umori e liquidi in eccesso. I reumatismi sembravano svaniti, come per incanto.
Goffredo Giachini
7 febbraio 2021