Maceratesi alle cure termali: Salsomaggiore Terme, reparto Valle e reparto Monte

“Hai  mai provato a fare i fanghi?” mi chiese un giorno l’amico Piervito, radiologo presso l’Ospedale Provinciale mentre, con occhio scrutatore, andava esaminando la lunga opaca lastra della mia colonna vertebrale, appesa al quadro luminoso dell’ambulatorio. “Di guarigione non se ne parla. Potresti, però, trovare la maniera di alleviare i fastidiosi ricorrenti dolori autunnali; eviteresti così di assumere medicinali, vantaggiosi per le ossa (forse!), ma micidiali per lo stomaco… Come puoi vedere tu stesso, qui, tra la L.4 e la L.5 (vertebre lombari) c’è una evidente protrusione… Perché non provi a fare qualche fango o bagno  in una località termale?”

Il saggio consiglio – Mi parve un saggio consiglio, dovuto più alla familiarità che ci legava da anni, che non piuttosto all’interesse diretto di questa categoria di “burocrati passacarte”, come qualcuno usa considerare i medici “di primo ascolto”, in barba ai faticosi studi e in sfuggente ossequio ai principi deontologici della professione.

Partenza in 4 su una Fiat 600 – Mi imbarcai in tal modo nella lunga avventura delle “cure termali” – che doveva divenire quasi un’abitudine – profittando di una normativa che in tempi andati consentiva ai lavoratori  di godere di un periodo annuale di riposo per malattia “radiologicamente accertata” – recitava la legge – oltre i normali 30 giorni di ferie estive. Una limpida mattina di primavera partimmo in 4 a bordo di una Fiat 600 stracolma di bagagli e di attese speranzose. L’INPS ci aveva destinati allo Stabilimento Tommasini, gestito in forma diretta dall’Ente, in quel di Salsomaggiore Terme.

Salsomaggiore

La struttura monumentale, di chiara impostazione architettonica datata, occupava con il parco una vasta zona a ridosso della Stazione ferroviaria. Dal trenino che collega Salsomaggiore con lo snodo di Fidenza, centro di collegamento con le Terme, scendeva una fiumana di “ammalati”, con pacchi, valigie e bagagli di ogni specie e dimensioni, in una babele di dialetti e commenti coloriti. Era questo, prescelto per noi, il turno degli uomini che, ogni quindici giorni, si alternavano con le assistite del gentil sesso.

Lo stabilimento – Già di primo acchito fui colpito, oltreché dalla imponenza dell’architettura (soffitti altissimi, ampie vetrate, borchie e cardini di una lucentezza anacronistica e abbagliante) dai colorati cartelloni posti in bella vista al pianoterra, subito dopo la scalea di entrata, sui quali a lettere cubitali erano indicate due direzioni antitetiche: una freccia indicava il “Reparto Valle”, l’altra freccia il “Reparto Monte”.

“Valle” e “Monte”, suddivisione etnico-culturale – Il che stava a significare che l’Ente assistenziale, onde evitare possibili frizioni di carattere etnico-culturale (che, nonostante i vari pronunciamenti politici di ogni epoca e regime sulla compattezza nazionale, sono sempre esistiti e sempre ci saranno…), aveva destinato al “Reparto Valle” tutti coloro che provenivano dall’Abruzzo in giù e a “Monte” i corregionali del resto d’Italia. Le Marche erano comprese tra questi ultimi e confesso che, alla lettura degli elenchi e della collocazione, tirammo noi maceratesi un grosso sospiro di sollievo. Due settori ben separati, dunque, con camerate opportunamente distinte e due enormi saloni per la mensa ubicati in piani diversi.

Quelli della “114” – Ci assegnarono un ampio stanzone a 4 letti e, dal momento dell’ingresso nello stabilimento, fummo sempre considerati come nucleo fisso e indissolubile: quelli della 114! E così per le visite mediche, per le cure, per la sistemazione a tavola, per gli eventuali contatti telefonici: eravamo identificati dal numero della stanza.

Le terapie – Le terapie antireumatiche consistevano in quotidiane immersioni in vasche di acqua calda, di un colore paglierino sporco, dalle prerogative salso-bromo-iodiche – recitavano i cartelli delle istruzioni – appesi in ogni angolo dello stabilimento. Divieto assoluto di fare docce e abluzioni per almeno una/due settimane! La stanza 114 iniziava il turno alle 5:30 della prima mattina e così a scalare, di tre quarti in tre quarti d’ora,  fino alle 11 dell’ottavo giorno, per poi riprendere da capo. Volendo, si poteva usufruire di sedute di massaggi specifici, inalazioni e bagni di vapore a pioggia, questi ultimi in un ambiente vasto e comune che avevamo battezzato “lu cameró’ della nebbia”, dove, a causa della densa cortina caliginosa e delle luci ovattate, ci si poteva riconoscere soltanto dal suono della voce. Anime perse in un limbo artificiale.

Si aggirano come fantasmi gli 800 ospiti – Chi fosse capitato a transitare per gli interminabili corridoi delle Terme Tommasini nelle prime ore del mattino, si sarebbe imbattuto in misteriose sfuggenti turbe di figure incappucciate e avvolte in lunghi barracani di spugna bianca (indumenti che in vernacolo definimmo d’emblée “li lazzarù…”), fantasmi che uscivano dalle stanze o ne rientravano paonazzi fumanti e accaldati, dopo le rituali immersioni nelle vasche bollenti. Una volta effettuati i turni di cure, le ore pomeridiane erano a disposizione. Ci si doveva comunque attenere strettamente agli orari prefissati per le terapie e per i pasti e non poteva essere altrimenti, vista la massiccia impegnativa presenza nella struttura di circa 800 ospiti in una sola tornata.

Il personale di servizio e le salaci battute – Il personale di servizio, sempre educato e ben disposto, faceva rispettare con fermezza gli ordini ricevuti,  esprimendosi con l’elegante idioma della zona, alleggerito da una costante imprevedibile “erre” francese. Argute e pronte le battute dei (o delle) semplici inservienti, che nel corso della giornata non facevano altro che strusciare i pavimenti con grossi spazzoloni snodabili, pulire vetrate, lustrare pomelli di ottone. Altrettanto abili e pronte nelle repliche erano le cameriere addette alle camere, cui i “maschi” specie quelli provenienti dalle regioni del sud non risparmiavano, ad ogni pié sospinto, allusioni salaci e spesso volgarotte nel senso e nell’intonazione dialettale.

Passi di danza… – Con alcune di queste signore (che indossavano con eleganza persino l’uniforme di rito, con i capelli sempre ben pettinati e le acconciature elaborate dalle frequenti sedute dalla parrucchiera) osammo accennare, un pomeriggio uggioso e interminabile, passi di danza lungo i levigati spazi delle corsie, accompagnati dal suono di un’ammiccante estemporanea  fisarmonica, che un ospite si era portato da casa. L’intervento della caposala, richiamata dagli insoliti accordi di una polka o di una mazurka, interruppe questa estemporanea esibizione di liscio.

Il Dancing Corallo – Che tuttavia riprese nei giorni a venire in una delle numerose “balere” dei dintorni in cui ci recammo sere dopo, non senza esserci preventivamente garantiti della presenza delle precitate cameriere ai piani. Il locale, che andava per la maggiore nella zona della provincia parmense si chiamava “Dancing  Corallo”. Qua mi si aprirono orizzonti desolanti e inimmaginabili. Al ritmo di un rabberciato trio musicale, composto da tastiere/fisarmonica, batteria e chitarra basso, in un’atmosfera volutamente nebbiosa e carente di luci dirette, si muovevano coppie di ballerini indefinibili nei contorni e per età e per censo, in un miscuglio di profumazioni scadenti  e dozzinali, il tutto condito da effluvi di epidermidi accaldate e di ascelle sudaticce.

In luce… veritas – Nei rari momenti di pausa era un susseguirsi – specie da parte dei cavalieri – di scatti in velocità, di malevoli urtoni o di eleganti sorpassi, nel tentativo di carpire, in ogni maniera, quanto di meglio offrisse la fauna femminile presente nella sala da ballo. Quando le luci psichedeliche restavano per un attimo fissate sul bianco, tra un baluginare di riflessi specchianti dai toni spenti o ruffianamente schermati, si evidenziavano strani contrasti: improbabili ed esasperati maquillage, capigliature posticce tenute insieme da forcine abilmente celate o da abbondanti applicazioni di lacca. Il bello era che, osservate da dietro, alcune dame potevano apparire anche giovanili e piacenti, fasciate com’erano in attillati tailleur color pastello o in abitini da mezza sera che lasciavano scoperte spalle o polpacci appetitosi. Quando poi le signore si mostravano in proiezione frontale la delusione era cocente, perché, sotto la luce indiscreta dei riflettori, comparivano i segni del tempo e lo scempio di esasperati trucchi in fase di scioglimento per il caldo e per il fumo dell’ambiente. Regnavano nell’angusto spazio della balera un’allegria per lo più forzata e artificiosa e uno squallore di intenti, trasudanti nell’intreccio dei passi di un tango languoroso o negli atteggiamenti complici e maldestri di certe coppie, male assortite e assemblate ex novo in un clima  di suadente complicità.

Goffredo Giachini

6 dicembre 2020

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