Correva l’anno 1476, Corridonia tra pestilenze e tifo

Le pestilenze che hanno flagellato l’umanità fino all’avvento della medicina moderna sono davvero molte, tant’è che l’elenco sarebbe lunghissimo e sicuramente impreciso. Nella cultura di massa tornano subito alla mente la famosa peste del 1630 narrata dal Manzoni, dove a Milano su una popolazione di circa 250mila persone si toccò una mortalità vicina al 75%. Altrettanto famosa la peste nera del 1348 nella Firenze del Boccaccio, cornice e pretesto per la stesura del Decameron: una epidemia che disintegrò un terzo della popolazione europea, con punte in alcune zone addirittura del 70%. Eventi di una drammaticità unica, devastanti anche per una popolazione che era avvezza a convivere con la morte dovuta a carestie, guerre e malattie.

Un terrore, come narra il Boccaccio, che portava ad abbandonare famigliari, a sovvertimenti morali e religiosi, a una vita dissoluta o a improvvisi moti di ascesi. Il morbo si spostava da regione a regione finché arrivava l’orrido cominciamento, il primo caso del comune che materializzava le paure, gli spettri dell’angoscia. E tutti quasi, ad un fine tiravano assai crudele: ciò era di schifare e di fuggire gli infermi e le loro cose; e così faccendo, si credeva ciascuno o se medesimo salute acquistare (Decameron).

Venendo alle nostre terre, lo storico locale don Pietro Paolo Bartolazzi, nelle sue Memorie di Montolmo (Corridonia), ci narra la peste che colpì il comune nell’anno 1476: come ben precisato, non era la prima, ma una delle tante che aveva colpito il territorio. Dai Consigli del 16 luglio si legge che il morbo stava mietendo molte vittime nel comune. In gennaio a Roma, sotto Sisto IV, una terribile piena del Tevere aveva inondato molta parte della città creando gravi danni; portato da fuori, o a causa del disseccarsi… delle acque corrotte, il contagioso morbo fece strage nei mesi seguenti del popolo romano e quindi si dilatò nella Marca e invase il nostro paese.

A Montolmo furono designati otto Confratelli (Fraternales) per interrare i morti senza alcun suono di campane, ciascuno nella propria parrocchia. Furono nominati tre deputati per i necessari provvedimenti  – deputati che tanto somigliano agli attuali esperti dei nostri comitati coronavirus -e altri messi per la custodia delle cinque porte: Sancti Donati (porta San Donato), Sagliani (porta Trieste già Sejano), Molendinorum (porta Trento), Portarellae (porta Romana) e Sancti Petri (porta Santa Croce). Allora, come adesso, il controllo degli spostamenti era essenziale per la diffusione del virus. Il medico della comunità, certo Gaspare, atterrito dal morbo si rifiutò di esercitare il servizio e si rinchiuse in casa.

I reggenti furono pertanto costretti a reclutare urgentemente un nuovo medico, tal Daniele, nominandolo per quattro anni col salario di 150 fiorini alla ragione di 40 bolognini, pel primo anno, e di 120 per gli altri tre con di più una casa per sua abitazione. Fu anche assunto un chirurgo per applicare coppette ventose o a taglio, con obbligo di trar sangue a tutti gl’infermi tanto di peste che di altra malattia.

Il principio del salasso si basava sulla teoria che nel corpo dell’ammalato fossero presenti cattivi umori e che quindi con la fuoriuscita del sangue questi venissero espulsi portando il malato alla guarigione. Il salasso si poteva effettuare direttamente attraverso delle lancette (coltellini) o, se il paziente fosse stato troppo debole o giovane, attraverso l’applicazione di coppette di vetro scaldate a fuoco, per lasciare intatta la pelle causandone solo una tumefazione; oppure, prima dell’applicazione della coppetta, si procedeva a una piccola incisione facendone uscire il sangue poi tramite la depressione causata dallo strumento riscaldato. Altro metodo, qui non citato, ma molto usato, era quello delle sanguisughe. A capo dei seppellitori fu scelto un certo Firmano da Morrovalle.

Inoltre si fece ricorso all’aiuto divino con il deliberare che la festa di Sant’Antonio da Padova fosse celebrata con la stessa solennità di quella dei Santi Patroni; offerta di ceri e Messe solenni furono eseguite presso la chiesa di Santa Maria de Jesu da poco costruita presso il palazzo del podestà (scomparsa con lo stesso), e ci fu solenne impegno di dipingere le immagini di Sant’Antonio da Padova in diverse chiese del comune. Voglio concludere, saltando diversi secoli, con il ricordo di don Pietro Paolo Bartolazzi relativo alla terribile epidemia di colera che nel 1855 colpì Pausula (Corridonia).

Siamo all’inizio del mese di luglio, la comunità era nel panico e nel terrore totale: l’incessante passaggio del funebre convoglio per il cimitero, i desolati pianti di tante mogli, di tante madri che correvano scarmigliate a raccomandarsi, avevano messo a tutti uno spavento indescrivibile. Non si trovavano né assistenti per l’ospedale, né facchini, né seppellitori: bisognava con la forza costringere i contadini a scavare le fosse nel camposanto. Il morbo era orribile soprattutto nelle persone più giovani e robuste che morivano smaniando, facendosi nere. Terrorizzati cercavano tutti di ritirarsi per timore del contagio; gli stessi parenti abbandonavano i moribondi e molti finivano per mancare di soccorso.

Il Bartolazzi, tornato di corsa da Roma, si dimostrò miracolo di Carità, come racconta il nipote. Rianimò i colleghi, stimolò i riottosi all’assistenza, indusse don Giuseppe de Angelis ad assumere la sorveglianza e la permanenza all’ospedale Civico che rigurgitava talmente di appestati, che furono dovuti collocare su materassi distesi nel pubblico piazzale davanti alla Chiesa. Soltanto in un giorno si contarono cinquanta casi con trenta morti e in meno di un mese cinquecento vittime. Poi come per incanto il morbo incominciò a decrescere finché a inizio di agosto scomparve definitivamente. L’ospedale Civico è ancora esistente, anche se solo per la struttura esterna: è l’attuale Casa di Riposo di Corridonia e il piazzale citato è quello antistante (vedi foto).

Modestino Cacciurri

16 luglio 2020

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