Alla fine di ogni anno, sopravvive la tradizione di scambiarsi gli auguri e l’auspicio “che l’anno prossimo sia migliore di quello appena trascorso”. Nei tempi antichi, si facevano sacrifici agli Dei e il rito si concludeva con lauti banchetti, canti e balli. Gli Dei non sono più in auge ma ricche cene, canti e balli sono ancora vivi e vegeti.
L’ancile e il fabbro Mamurius Veturius – Non è semplice individuare l’origine della festa di fine anno. Certamente doveva essere precedente ai primi Re di Roma, quando fu denominata Equiria, Mamuralia o Mamuriales. È Tacito a riportare la leggenda che al tempo del Re Numa un Ancile (scudo di metallo bilobato) sia caduto dal cielo, mentre una voce tonante prometteva il dominio del mondo a quella Città che lo teneva e conservava. I Romani, temendo il furto, ne fecero riprodurre 11 dal fabbro Mamurius Veturius. Le copie risultarono perfette. I 12 ancili-scudi vennero collocati nel tempio di Marte, sotto la custodia dei 12 (poi di 24) Sacerdoti Salii, dedicati a Marte e scelti da Numa Pompilio tra i nobili del popolo Piceno, i Salii (le 3 vie “Salarie” che attraversano le Marche vanno intese come le vie dei Salii e non del sale). Mamurio non chiese compensi, volle solo essere inserito nei “carmina” che i Salii cantavano nelle loro feste.
Le “Mamuralia” – Nell’antica Roma l’anno iniziava con le “Idi” di marzo (mese dedicato a Marte); la festa era detta “Equiria” (Festa del dio Mars). Il 14 marzo, inteso come l’ultimo giorno dell’anno, si celebravano le “Mamuralia”. La festa durava l’intera giornata: corse di cavalli in Campo Marzio, consacrazione a Marte della cavalleria, processione dei Salii. In onore di Mamurio era consuetudine rappresentare quel fabbro come un vecchio dall’andatura traballante, con il volto annerito, coperto da un mantello di pelle dal vello nero e con, sulle spalle, il sacco che conteneva le cose da dimenticare: rappresentava l’anno vecchio. Grandi e bambini lo inseguivano, sbeffeggiandolo, colpendolo con vimini e tirandogli dietro oggetti in disuso, finché non fosse andato lontano portando con sé tutte le negatività del l’anno trascorso.
“Lu Vecchió” – Quando lu Vecchió, in tempi più recenti, si era allontanato si rientrava nelle modeste abitazioni, i bambini trovavano sul tavolo della cucina (o nascosto altrove) qualche caramella, poche arance e pochissimi torroncini; tornava l’allegria. I doni erano miseri ma la speranza di un domani migliore era concreta. Il rito è durato millenni; ma da qualche decennio se ne è persa la memoria, forse solo i marchigiani più anziani ricorderanno ancora “Lu Vecchió” delle campagne picene, quando la Befana e Babbo Natale non erano nati. Tra le tante rievocazioni storiche, non sarebbe reato inserire “Lu Vecchió”, la cui origine è assai antecedente l’era volgare.
“Dà focu a lu vecchió” – Per completezza si deve ricordare che la notte dell’ultimo dell’anno, in alcuni paesi marchigiani, si usava “dà focu a lu vecchió”: un pagliaccio vestito sopra descritto e riempito di paglia oppure di “cannijole” (canne lacustri). Questa tradizione è relativamente, più recente. Risulta sporadica, nella seconda metà del secolo scorso, la consuetudine di abbinare la festa de “lu Vecchió” (che portava doni ai bambini) con quella di Sant’Antonio Abate (che proteggeva gli animali da reddito). In quei tempi l’agricoltura e la zootecnia erano particolarmente floride però oggi Babbo Natale e la Befana hanno tanta forza economica da riuscire a soppiantare in poco tempo millenarie consuetudini.
Nazzareno Graziosi
3 aprile 2020