La depressione è una dea, recita il titolo di un libro di Donatella Puliga, e in effetti quella che oggi si definisce malattia, nell’antichità assunse diversi caratteri: patologica, nell’epoca greco-romana, relegata nell’ambito morale, conseguenza del peccato od addirittura possessione diabolica, nel periodo medioevale. Polibio – Nel trattato Sulla natura dell’uomo di Polibio (Corpus Hippocratum), si teorizza con cura la teoria dei “Quattro umori”: sangue, flemma, bile gialla e bile nera. È la loro anomala distribuzione a causare la malattia detta “melanconia”, un termine molto poetico per definire la depressione.
Ippocrate – Il grande Ippocrate ritenne che l’uso dell’elleboro, una pianta velenosa con forte proprietà lassativa, potesse purificare la bile ed evitare la pazzia: non sappiamo i risultati, forse, permettetemi la battuta, il problema impellente faceva scordare gli altri mali…
Aristotele – Lo stesso Aristotele nel Corpus Aristotelico pone un interessante quesito: “Come mai tutti coloro che sono particolarmente versati alla filosofia… alla poesia o alle arti, appaiono malinconici ed alcuni di loro a tal punto da essere colpiti da malattia?”
Cicerone – Cicerone, qualche secolo dopo nelle Tuscolane, afferma che in particolare il saggio, si lascia cogliere dall’afflizione, ponendo pertanto una connessione molto stretta tra malinconia e saggezza: la malinconia dà all’uomo una capacità introspettiva di ricerca intellettuale che in una normale condizione non si può avere. Lo stesso Cicerone, a causa della morte della figlia e delle vicissitudini politiche, era piombato in un forte stato depressivo da cui non ebbe mai ad uscire.
Lucrezio – Lucrezio nel libro terzo del De rerum natura ci offre una splendida descrizione del male di vivere: “…nessuno sa cosa vuole e sempre cerca di cambiare luogo come se potesse disfarsi dal peso… spesso esce fuori dal grande palazzo chi a stare in casa è colpito da noia, ma d’un tratto rientra perché sente che fuori non sta meglio per niente… in questo modo ciascuno cerca di sfuggire a se stesso, ma a quel se stesso da cui non può separarsi”. Un morbo, a cui Lucrezio non dà un nome, spinge l’uomo a una fuga senza fine da se stesso. Il paradosso è nel fatto che il timore della morte alla base dell’inquietudine, è lo stesso colpevole del rifiuto della vita stessa.
Orazio – Orazio afferma che l’ansia della mutatio locorum (del voler cambiare luogo), di certo non lenirà gli affanni: “A Roma si desidera la campagna, quando sei in campagna, volubile esalti la città che non c’è”.
Seneca – Seneca nel De tranquillitate animi cerca di definire la sua “affezione dell’animo” scrivendo: “Non sto né male né bene”. È, secondo il filosofo, una disposizione mentale che forgia il carattere della persona e che lui chiama genericamente “taedium” (tedio); ciò che manca a chi soffre nello spirito è una buona disposizione verso se stessi, una predisposizione che sia gioiosa e imperturbabile davanti agli eventi della vita e che possa sopprimere l’insoddisfazione della vita stessa. Seneca utilizza il verbo “revolvere” (girare), nel senso di un vorticoso nauseante giro a vuoto interiore di cui i piaceri o i dolori riportano sempre al punto di partenza: un classico “loop temporale” per dirla con un termine attuale. “Prima il tempo non mi pareva così veloce, ora mi sembra che passi ad una straordinaria rapidità, sia perché sento avvicinarsi la sua fine, sia perché sono attento agli anni ed alle opportunità perdute”. Seneca per tentare di uscire da tale circolo vizioso propone due rimedi: il primo positivo, rivolto verso le cose da fare e le persone di cui circondarsi; il secondo negativo, relativo alle cose da non fare e alle persone da evitare. Positivo è fare il bene agli altri e sentirsi utili alla propria comunità: le virtù anche se nascoste si faranno riconoscere e attireranno i migliori uomini in amicizia: “Nulla potrà rallegrare un animo quanto una amicizia dolce e fedele”.
Sant’Agostino – I romani, riferisce Sant’Agostino, veneravano quattro “dei minuti” (minori), i quali presiedevano alla sfera emotiva: Murcia che provoca immobilismo, Agenora che dà lo stimolo all’azione, Stimula e Stremia alla base rispettivamente della sfrontatezza e del coraggio. Lo squilibrio tra questi quattro dei, secondo il credo romano, provoca sbalzi di umore e comportamenti non equilibrati. Interessante l’assonanza del nome Murcia con il termine “marcire”: l’animo che non ha voglia di parlare e il corpo di muoversi, fanno marcire l’uomo. La perdita dell’interesse alla vita fa morire l’anima.
Orazio – Questo è lo stato, come dirà Orazio, di chi “Non ha forza di fare nulla di ciò che è necessario fare…[è] il lasciarsi andare ad un’attività a vuoto, senza meta, senza coerenza”. Facile è l’analogia dei quattro dei minori romani con i quattro umori greci: gli umori fisici dei greci sono diventati per i romani dei: la depressione è una dea!
Samuel Johnson – Facciamo un ultimo grande salto in avanti nella storia, per passare all’Inghilterra del XIX secolo dove il termine black dog stava a indicare (forse già da qualche secolo) una situazione di malinconia, tristezza, depressione. Samuel Johnson (1709-1784), letterato, usava questa espressione per definire il suo stato di depressione malinconica che gli rendeva la vita impossibile.
Churchill – Lo stesso Churchill, difficile a crederci, era solito dire che condivideva la sua vita con “un cane nero sulla sua spalla”.
Un dì venne a me malinconia
e disse: “Io voglio un poco stare teco”,
e parve a me ch’ella menasse seco
dolore e ira per sua compagnia.
Dante, Rime, XXV, 1
Modestino Cacciurri
21 marzo 2020