Don Fernando Morresi, il Coro Sibilla e una Pasqua a Danzica

Nella Pasqua del 1984 il “Coro Sibilla” fece una memorabile trasferta nell’estremo nord della Polonia, a Danzica, nell’ambito di una serie di scambi con gruppi canori del posto. Una esperienza indimenticabile e formativa, che lasciò nel cuore di tutti i partecipanti un segno profondo e indelebile.

Un primo intoppo – Partimmo alle quattro di un  mattino di aprile, constatando con disappunto che il pullman prenotato non era quello che ci si aspettava, ma un mezzo di proprietà di un “padroncino” proveniente dalla provincia di Pesaro, cui la ditta inizialmente interpellata si era rivolta per una sostituzione dell’ultima ora. Per di più alla guida c’era un unico autista, contro i due previsti per le lunghe distanze.

In partenza 40 persone – Si erano aggregati all’ultimo momento al coro un sacerdote e alcuni amici, spinti dalla curiosità di conoscere un paese dell’est ancora inesplorato. In totale una quarantina di persone. Facemmo il viaggio tutto d’un fiato fino ai confini del Brennero; poi l’Austria, con qualche difficoltà nel transitare per Vienna. Poco da segnalare al passaggio delle frontiere con controlli di routine.

Altro intoppo alla frontiera – Le prime vere emozioni cominciarono al confine tra l’Austria e quella che era ancora la Cecoslovacchia: dopo l’inquietante transito di una zona franca, immersa nella quasi totale oscurità della notte, e chiusa da una sbarra a bilanciere vigilata da militari con tanto di mitra, gli addetti alla dogana ci costrinsero a fare un’anticamera di alcune ore, senza un cenno di saluto, senza soprattutto che ci fosse offerta una motivazione…  Ci si intendeva a fatica, con la mimica e qualche espressione in lingua tedesca.

Beni donati o… sequestrati? – Gli agenti di frontiera, all’epoca inflessibili, si rifiutavano di comunicare con ostentata indifferenza. Poiché la targa e il colore del pullman risultavano diversi da quelli inizialmente indicati sui nostri moduli, ci fecero correggere tutti i quarantadue permessi di transito acquisiti a suo tempo a fatica all’ambasciata cèca di Roma. Ci fecero scaricare gran parte dei bagagli, aprendo, spaccando, frugando sospettosi. Ci lasciarono andare dopo un tempo interminabile di sosta forzata in un gelo per noi inusuale, dopo aver accettato a titolo di gratificazione (!): tre chili di spaghetti, varie bottiglie di vino rosso, due colombe pasquali e una confezione di profilattici, pescata nel fondo di un borsone.

Una notte da incubo – L’attraversamento della Cecoslovacchia resta nella memoria come un incubo: una nottata immersi nel buio più fitto, senza incrociare un automezzo, con una segnaletica stradale pressoché inesistente. Per ben due volte finiamo fuori strada in aperta campagna, trovando poi il cammino ostruito da un ponticello tetro e così basso da non consentire il passaggio del nostro pullman.

Si spande il profumo di caffè – All’alba del 19 aprile siamo finalmente a Cheshin dentro il territorio polacco, dove facciamo tappa, in attesa che due ragazzi del “Coro Olivense” di Danzica – come da accordi precorsi – vengano a  prelevarci al posto di confine. Nei pressi del pullman un nostro collega cantore mette in funzione un fornelletto da campo a gas e una moka da otto caffè borbotta presto sul fuoco. I rari passanti osservano incuriositi la scena, gli operai di una vicina fabbrica ammiccano sorridendo e passano rapidi con gli occhi bassi. Alcuni militi di guardia allo stabilimento stanno all’erta, col mitra imbracciato per ogni evenienza. Peppe finisce per confezionare ben sei caffettiere e nell’aria gelida e rarefatta delle prime ore del primo giorno in Polonia si spande un aroma tutto italiano!

Czestochowa – La strada che attraversa la Polonia è bella e diritta. Costeggia per lunghi tratti la Vistola e sembra una autostrada in confronto ai… tratturi della Cecoslovacchia. Transitiamo per Czestochowa, dove avremmo voluto sostare in preghiera dinanzi al quadro della famosa Madonna Nera, ma siamo arrivati nella città il Venerdì Santo. Nella circostanza l’icona è celata al pubblico da un drappo viola, ci dicono, ed è assolutamente vietato varcare le soglie della chiesa.

Loreto fa da passaporto – Dopo lunghe insistenze, considerata la nostra provenienza e gli imprevisti del viaggio affrontato, alla fine il nome dell’Italia e in particolare di Loreto fanno comunque da apri/porta e ci permettono di entrare nella cappella dov’è custodita la santa immagine della Vergine. Restiamo scossi dall’originale struttura di un “sepolcro” simile a quelli della nostra consuetudine pasquale, che è stato pensato come un plastico della Polonia con sopra disteso il corpo di Cristo, drammatico nel suo biancore di gesso. Completa l’addobbo un drappo rosso e bianco messo a mo’ di sudario panneggiato su una alta croce lignea.

Il significato – L’immagine vuole suggerire – ci spiega un alto prelato che parla benissimo l’italiano e che ci accompagna nell’itinerario – le tante sofferenze del popolo oppresso dalla dominazione russa e da quella ben più luttuosa da parte dei Tedeschi; popolo fiero e indomito quello polacco che, grazie all’opera risanatrice del movimento operaio di “Solidarnosc” andava lentamente riacquistando energie e dignità, dopo i troppi patimenti degli ultimi decenni di storia.

Le foto “clandestine” – La tappa successiva è la città di Cracovia, dove presso il castello (il Wharvel) visitiamo un bellissimo Museo con i cimeli dell’antica civiltà del luogo: piviali, arredi sacri di una elegante preziosità, pastorali, medaglie, monete, strumenti musicali d’epoca. Non si possono scattare fotografie. Ma Carlo, patito del flash, riesce a farne alcune di soppiatto con l’aiuto di Guido, il quale – con perfetta scelta dei tempi – spara qualche colpo di tosse a coprire il contemporaneo  scatto dell’otturatore.

La “sòla” evitata – Nel piazzale antistante l’edificio storico del Wharvel bazzicano loschi figuri – ogni mondo è paese – i quali, intuita al volo la nostra condizione di turisti… americani, cercano di rifilarci la moneta locale a un cambio non proprio di convenienza. Don Fernando, nel suo schietto candore e forse colpito dall’aspetto miserevole di uno dei “pataccari”, rischia di prendere una solenne fregatura, accettando il cambio di pochi sloti per non so quante centinaia di dollari. Interviene in tempo uno dei ragazzi di Danzica che ci accompagnano nei giri, il quale provvede, con fermezza, ad allontanare l’importuno.

Arrivo a Danzica – Passiamo la notte presso un convento di Frati Comboniani dopo aver mangiato uova galleggianti in un brodino di latte acido (!) e dormiamo nei sacchi a pelo che avevamo al seguito… Il giorno successivo arriviamo a destinazione in Danzica; sono le dieci di una sera tetra e nebbiosa. Poi il tempo si metterà al bello. Sono in tanti ad attenderci al quartiere di Oliwa in una specie di parco giochi davanti all’edificio delle Scuole. Come prestabilito, dobbiamo sistemarci presso le famiglie del luogo e in breve si combinano gli abbinamenti.

La richiesta… sconcia – Luciano, l’eroico, stoico autista del pullman, distrutto dalla fatica della guida, sembra sorpreso e interdetto: nessuno ha pensato a lui per l’alloggio. Si gira intorno smarrito, alla ricerca di un viso complice e comprensivo. Capita accanto a don P. G., il sacerdote che ci  accompagna nel viaggio e che fa da consigliere spirituale. Questi, come sempre e contro ogni regola e convenzione, indossa calzoni e pullover e si dà un gran daffare, eccitato, euforico, felice di ritrovare tanti volti conosciuti in precedenti occasioni di visita. Baci, abbracci, pacche sulle spalle. Luciano deve aver recepito da voci di… corridoio dei viaggi di P. G. in Polonia, ma ignora la sua condizione di uomo di chiesa. Con atteggiamento sornione e toni di voce smorzati, si avvicina al prete chiedendo: “Tu… che sei pratico dell’ambiente… è vero che qui si rimedia facile? Insomma se uno cerca… compagnia, come deve comportarsi? Ho sentito dire che non costa tanto… è vero?” Don P. G., in imbarazzo, volge lo sguardo intorno, in cerca di un appiglio, di un’àncora di salvataggio, poi si precipita a salutare, con foga esagerata, qualcuno che prima non aveva riconosciuto tra la folla.

Ospitalità – La signora Josefa, presso cui siamo ospiti io e Graziano, possiede un appartamentino di non più di 60 metri quadri, ottenuto, fa capire, dopo anni di attesa. Ce lo lascia tutto a disposizione, trovando alloggio provvisorio per sé e i suoi due figlioli presso una vicina. Constatiamo che non esiste un bagno, almeno così come concepito da noi borghesi inciviliti. C’è uno stanzino dove entra a malapena il vaso del water. In altro locale attiguo è sistemata una vaschetta ad angolo con doccia. Valigie e pacchi sono ammonticchiati dietro le tende di spesso panno verde. Se ci si affaccia alla finestra, si ha l’impressione di abitare in un enorme alveare, con gli edifici alti, tutti uguali, di una architettura squadrata e lineare. Di notte, attorniati da mille lumini innaturali, nel buio più assoluto, sembra di essere al centro di un cimitero. Le scale di accesso sono impregnate di un acre odore di cavoli e cipolle; c’è anche un ascensore, o meglio un montacarichi senza portine che produce un effetto straniante quando si vedono i muri scivolare via in senso opposto alla risalita.

Un piatto di spaghetti… particolare – Per la vigilia della Pasqua, la signora Josefa, in onore degli ospiti italiani, ha preparato i… tortellini, immersi in una specie di brodo rosso/sangue. Ci ha fatto capire, con l’aiuto della figlia che mastica un po’ di inglese, di aver messo a bollire la pasta, con la carne, i crauti e le rape rosse; così, tutto mescolato insieme! Come secondo piatto sono arrivate tre fiamminghe di pesce lesso immerso in una spessa patina di gelatina. Non si usa il pane e ce ne forniscono pochi esemplari in forma di sfilatini nerastri, coperti da semi aromatici di cumino.

La cucina italiana lascia indifferenti – Si stupiscono quando chiediamo una bottiglia d’acqua; devono farla bollire prima di metterla in tavola e per raffreddarla bastano due minuti fuori dalla finestra. Loro bevono tè bollente in alti bicchieroni infilati in custodie di rafia intrecciata. Per ricambiare in certo qual modo la cortesia, il giorno successivo confezioniamo favolosi piatti di spaghettoni alla carbonara, con gli ingredienti trovati nel frigorifero, ma l’accoglienza da parte degli ospiti è stata pressoché indifferente! Ci avevano avvertito, prima di partire dall’Italia, che non avremmo, forse, trovato cibarie a sufficienza, e si erano così riempiti i cassoni del pullman con pacchi di pasta, carne in scatola, caffè, zucchero, vino e quant’altro. Constatavamo, con sorpresa, una situazione di apparente relativo benessere, impensabile qualche anno addietro, come diceva don P. G. reduce da precedenti esperienze in Polonia. Si vedevano merci in vetrina e la gente per strada si muoveva con  disinvolta spigliatezza.

Un successo il concerto – In occasione del concerto al Municipio di Gdansk (Danzica) otteniamo un grosso successo di pubblico con applausi convinti a non finire e un omaggio da parte del Sindaco a tutti i coristi di un garofano dai petali bianco-rossi, colori nazionali della Polonia e (guarda caso) di Macerata. La Messa di Pasqua, celebrata dall’Arcivescovo nella cattedrale di Oliwa, grosso quartiere di Danzica, resta come uno dei più toccanti, commoventi ricordi di questo viaggio. E i polacchi, nella casa di Dio, ci sapevano stare: pregavano forte all’unisono, cantando con fervore e disciplina, rispondevano alle invocazioni del celebrante, si inginocchiavano e si rialzavano in assoluto silenzio. Nell’occasione azzardiamo un “Alleluja” composto ad hoc dallo stesso don Fernando e provato appena una mezz’ora prima del rito. Ed è venuto benissimo, nemmeno l’avessimo assimilato da tempo.

Le “Tre Croci” – Una visita d’obbligo è stata quella al monumento detto delle “Tre Croci” dinanzi ai Cantieri Metallurgici Lenin nella zona del porto, le cui strutture erano state integralmente e fedelmente ricostruite sullo base e lo stile di quelle distrutte dalla guerra. Un po’ come è accaduto per la gran parte degli edifici cittadini. Il monumento è costituito, come si evince dal nome, da tre pilastri in acciaio brunito contorti e martoriati, alternati a pannelli scolpiti in bronzo. Al vertice dei 16 metri di altezza i tre pilastri si uniscono e vanno ad assumere la forma di tre croci, tra loro serrate da una catena, levigate e svettanti verso il cielo. Evidente il significato di una installazione così insolita e ardita: la propensione verso l’alto di blocchi contorti e grezzi, che si modificano in altre realtà specchianti e nitide, seppure in forma di croci (strumenti di sofferenza) e di catene (emblemi di una costrizione da cui riscattarsi).

La battuta spiritosa – Un corista, notoriamente scanzonato e interpellato sulla sua mancata partecipazione alla visita all’acciaieria, ha spiritosamente commentato: “Non  me freca de non èssece vinutu… E mica c’era bisogno che me scapicollassi fino quassù a Danzica per véde le Tre Croci… Io ce l’agghio a casa: mi’ moje, mi’ matre e mi’ socera !”

I malesseri di Don Fernando – Don Fernando, a volte, non era della compagnia, preferiva rimanere presso la canonica che lo ospitava o  all’interno del pullman, dove, al ritorno, lo trovavamo semi assopito negli ultimi posti o acciambellato sul sedile e dolorante. Giustificava più a se stesso che agli altri questi malesseri, attribuendoli alla stanchezza o alla poca dimestichezza con i cibi del luogo. Restava per ore sdraiato, con dignitosa compostezza, senza peraltro far pesare questo suo stato di sofferenza. Erano purtroppo i prodromi del tremendo male che, alcuni anni dopo, lo avrebbe stroncato.

La partenza – Non partecipò neppure alla festa di addio che i giovani del Coro polacco diedero in nostro onore in una specie di locale notturno a Sopot, la spiaggia mondana di Gdansk (il nome polacco di Danzica) dove – dissero – esisteva un rinomato casinò, frequentato durante la stagione estiva da turisti e villeggianti. Spesso là si erano esibiti cantanti italiani di grido. La partenza avvenne dal piazzale antistante la scuola, dove le famiglie ci avevano accolto pochi giorni prima. Piovigginava. Ho ancora negli occhi lo sguardo tenero e risoluto di un bambino biondissimo che, con i pugni affondati nelle tasche dei calzoni, guardava fisso i finestrini del pullman e i suoi occupanti. Strusciava imbarazzato i piedini in terra e si sforzava di trattenere le lacrime pronte a sgorgare. Quando la corriera si è avviata, tra il brusìo e le voci concitate di saluto, è scappato via velocissimo a nascondersi tra i pini del vicino parco.

“Fratelli d’Italia” – Durante il viaggio di ritorno restammo a lungo in silenzio, a riassaporare il gusto e le emozioni dei tanti momenti appena vissuti. Soltanto al Brennero cominciarono commenti e battute. Soprattutto attaccammo a cantare un sentito e un po’ stonato (sic!) “Fratelli d’Italia”, cui faceva da sottofondo l’accompagnamento del clacson di Luciano, felice di essere finalmente rientrato entro i patrii confini…

Goffredo Giachini

16 marzo 2020

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