Pubblichiamo a puntate il romanzo storico “La battaglia dei Campi Catalaunici”, scritto da Giuseppe Sabbatini e illustrato da Lorenzo Sabbatini, dove accanto alla figura del generale Ezio c’è, protagonista e testimone, il giovane soldato Terenzio, proveniente da Ricina, oggi Villa Potenza di Macerata.
Dieci giorni prima
Nell’aria tranquilla della sera di quel caldo mese di giugno i rumori dell’accampamento si andavano spegnendo lasciando posto ad una quiete lievemente irreale. La luna comparsa improvvisa fra pigre impalpabili nubi scolpiva con raggi indiscreti figure racchiuse nel ferro di scudi e pesanti corazze. “É il turno di guardia che passa” si sorprese a pensare Terenzio che, dopo quel giorno trascorso assieme ai compagni per stendere le difese del campo, seduto in un canto si godeva momenti di meritato riposo. La brughiera tutt’attorno mostrava vasti e accoglienti spazi con al centro, assai lontana, un’arborata collina che spezzava la monotonia delle distese illuminate dalla chiara luce lunare.
Nessuno nel campo trincerato voleva parlare, ma i messaggi arrivati dagli informatori, segreti ma in realtà già noti a chiunque (basti pensare alla “radio gavetta” dei giorni nostri), dicevano di grandi massacri, di razzie, di ignobili atti compiuti da genti in cammino, guidate da un uomo di fama sinistra, ardito e inarrestabile. Al solo parlare degli Unni che stavano dilagando nella Gallia, bramosi di possederla scalzando le altre genie che li avevano preceduti nei secoli, un certo palpito pervadeva le menti ed i cuori. E così i legionari, pur assuefatti a continui pericoli e fatiche, presagivano scontri cruenti in difesa di quelle terre che, dopo dominio prolungato nei secoli, l’Impero rischiava ora di perdere.
Il morale degli armati però era alto: Ezio in persona, il Magister utriusque militiae benvoluto e sicuro di sé, aveva assunto il comando e con parole e gesti di sostegno rivolti alle sue truppe schierate aveva fermamente promesso che i veterani, come un tempo, in caso di vittoria avrebbero avuto l’assegnazione di premi e di terre, tanto da poter assicurare anche alle loro famiglie un roseo avvenire. Tutti conoscevano le precedenti vittorie conseguite sotto la sua guida e il ruolo e la valenza di cui poteva gloriarsi il Generale, tant’è che da tempo si vociferava che il potere nell’Impero in realtà appartenesse a lui e non a Valentiniano (III°), che se ne stava in disparte a Ravenna nella trepida attesa di conoscere quale sarebbe stato il suo destino se l’Esercito che ancora rimaneva non fosse stato capace nella Gallia di fermare l’orda del “flagello di Dio”.
La disfatta di Adrianopoli e il Sacco di Roma da parte di Alarico erano eventi che ancora pesavano sul morale degli uomini di Roma e, in caso di nuova sconfitta, sarebbe stata la fine. Per questo Ezio per parte sua non era stato con le mani in mano e, consapevole dell’inferiorità dell’armata romana a sua disposizione, aveva cercato alleanza con le genti barbare che ormai da anni con l’accordo di Roma e più di recente di Ravenna si erano insediate in quei territori e che avevano a loro volta interesse a difendersi dai nuovi invasori che dilagavano dall’est. I Visigoti ed una sparuta schiera di Alani, certo non gratuitamente, si erano infine decisi ad affiancare il rappresentante in armi dell’Impero, facendo con quest’ultimo una volta tanto fronte comune.
Terenzio era un tipo tranquillo, abituato a rispettare il suo ruolo di soldato senza discutere, non si era posto il problema se fosse giusto fidarsi di gente che appena quaranta anni prima aveva invaso la Penisola, devastandola e saccheggiando persino Roma; dunque, come del resto i suoi compagni, per affrontare quella nuova e durissima prova che si profilava ormai inevitabile confidava soprattutto nell’intelligenza e nella capacità del suo Comandante. Dopo il frenetico lavoro, che come tutti aveva svolto durante il giorno per evitare cattive improvvisate, stanco, lasciò la mente libera di spaziare aldilà di armi e palizzate, volgendo il pensiero ai tempi passati e alle persone a lui care di cui manteneva sempre vivo ricordo.
Ecco così apparire come in sogno i giorni lontani; il Piceno natìo e quel borgo con accanto l’anfiteatro i cui resti frequentava da bambino: Ricina si chiamava, sulle sponde del fiume Potenza. Periodiche inondazioni avevano originato attorno rigogliose pianure coltivate da operosi veterani, così ricompensati per il servizio prestato in armi per le fortune dell’Impero.
Ma il borgo, un tempo popoloso e fiorente tanto da permettersi la costruzione di quel bel anfiteatro in concorrenza con quello della vicina Urbs Salvia, aveva purtroppo avuto in sorte un tragico destino. Avevano pensato le orde di Alarico, dirette nel 410 d.C. al saccheggio di Roma, a devastare la bella struttura, ove si erano susseguite con successo svariate rappresentazioni di tragedie e commedie nel solco della fiorente cultura cui la civiltà romana aveva dato vita nel tempo. Erano stati giorni terribili per gli abitanti; avvertiti da altri fuggiaschi provenienti dalle terre del nord.
Nascosti in fretta e furia pochi averi, raccolti cibi e masserizie, sembrò a tutti che l’unica via di scampo potesse essere la vicina collina oltre il fiume, allora coperta da una fitta foresta, resa ancor più sicura perché protetta da una inestricabile boscaglia i cui sentieri conoscevano solo pochi cacciatori che si spingevano di tanto in tanto a risalirla alla ricerca di lepri, daini e caprioli, sfidando gli assalti e le insidie dei numerosi animali predatori del luogo. Occorreva disporre anche di rifugi per la notte e per gli anziani malati ma la presenza di qualche asceta, che ogni tanto per sopravvivere scendeva giù al borgo e quindi già conosceva i suoi abitanti, assicurava già un punto di appoggio ed un giaciglio ai più anziani e bisognosi.
Fu così che, quando le prime avanguardie dei Goti entrarono nell’abitato, trovarono il vuoto e dovettero accontentarsi di razziare un magro bottino, tanto misero da indurli a vendicarsi distruggendo l’anfiteatro, dopo averlo profanato con lo sterco dei loro cavalli, lì radunati per passare le notti. All’arrivo del grosso di Alarico, impaziente di sfogare le sue brame sulle ricchezze della Città Eterna, i primi invasori se ne andarono, lasciando devastati anche abitazioni ed arredi.
Quante volte Terenzio aveva sentito dal nonno e dai genitori i racconti di quei giorni funesti, ma anche di quelli della lenta ripresa e della nuova vita risorgente nel borgo! Dopo dieci anni era arrivato lui. Come per ogni figlio che si rispetti, il primo problema era stato quello di dargli un nome. Il buon babbo Pertinace, rimasto improvvisamente solo per la morte da parto della adorata consorte Licia, avendo assistito a tanti degli spettacoli nell’anfiteatro, pensò bene di chiamarlo Terenzio nel ricordo ed in onore dell’autore di alcune delle commedie più apprezzate nel tempo: Publio Terenzio Afro.
“Che fai Terenzio? Non mangi questa sera?”. L’amico Elvio, antico compagno di giochi nella natìa Ricina, che lo aveva seguito nella scelta delle armi e che per una fortunata coincidenza aveva ritrovato proprio lì nell’accampamento provvisorio realizzato nei pressi di Duro Catalaunum (l’odierna Chalons en Champagne nella parte nord orientale della Gallia), era comparso silenzioso come un fantasma alle sue spalle. Elvio era un giovane aitante con un volto largo e luminoso contornato da una selva di capelli ricci di colore bruno tendente al nero. Di carnagione rosea, con la sua bocca improntata ad un perenne sorriso, spesso assumeva un atteggiamento ironico e scherzoso rafforzato da un rialzo delle ciglia e da due occhi vivaci esprimenti sorpresa, fatti per stimolare risposta.
“Il rancio è buono ed è meglio profittarne, chissà quando potremo gustarne ancora!”. – “Grazie Elvio. Non ho fame e poi non ci pensavo. Sognavo la nostra terra lontana e gli anni più belli della giovinezza”. – “Ma i sacchi vuoti non si reggono in piedi; così hanno insegnato i miei ed i buoni consigli cerco di rispettarli sempre, tanto più adesso che appare inevitabile combattere e bisogna quindi tenersi forti. Sognavi forse quegli appetitosi gamberi che laggiù cercavamo nel fiume per arricchire la tavola e ti appagavi solo al pensiero di quelli?”. – “Quanto vorrei tornare ancora lì; correre lungo le rive e nei fossi; portare a casa quei poveri animali per farli bollire in pentola, godendo della contentezza della famiglia e delle lodi del babbo che li gustava tanto!”. – “Certo ne abbiamo combinate assieme, magari mettendoci a correre lungo le gradinate del Teatro proprio nel bel mezzo della rappresentazione di qualche seria commedia!”.
Si scosse così Terenzio dal torpore che lo aveva assalito e ripensò anche ai verdi ramarri che con l’amico cercavano a gara di colpire con le fionde che si erano costruite e ai girini del “guazzo” che, lasciati poi liberi di saltare per casa, facevano sobbalzare le sorelle maggiori proprio nel momento in cui, sussiegose, si trastullavano a lungo fra specchietti e profumi. Elvio era un tipo curioso. Quando si salutavano combinando l’appuntamento per il giorno dopo, spesso poi non lo si vedeva. Amico di tutti, si accompagnava con il primo che incontrava per strada e così, dimentico di chi lo aspettava al punto convenuto, se ne andava a trascorrere altrove la giornata, salvo poi ripresentarsi, magari solo a sera. Erano trascorsi tranquilli gli anni della giovinezza.
continua
27 gennaio 2020