Il dottor Siviglia: imponente, balbuziente e in vena di scherzi

Che dire poi del dottor Siviglia, così alto e imponente da porre in stato di soggezione chiunque avesse da avvicinarlo anche per un semplice visto di autorizzazione. Il camice bianco – sdrucito e liso, in più parti macchiato da indelebili tracce di acidi o liquidi non definibili – che egli si incaponiva a indossare quasi fosse uno svolazzante spolverino di disimpegno, acuiva l’impressione di una smisurata altezza. Carte e certificati fuoriuscivano dalle tasche a toppa. Il pacchetto dei sigaretti, l’accendino, le quattro o cinque penne a sfera affastellate in breve spazio, formavano uno spessore bitorzoluto nel taschino di sinistra. L’assetto del camice ne subiva uno sbilanciamento laterale per cui testa-spalla-manica sembravano trascinare costantemente di lato la dinoccolata figura del medico. Il passo era elastico e svelto.

 

I colloqui “intimidatori” con i convalescenti

In anni giovanili Siviglia era stato un valente mezzofondista nelle fila degli atleti universitari e di tali trascorsi podistici conservava ancora il ritmo costante della falcata e l’armonico rotondo avvicendarsi delle braccia. Il tutto lievemente squilibrato da quell’innaturale pendenza verso sinistra, sempre più marcata nel tempo e sottolineata dagli anni e dall’artrosi incombente. Troneggiava per i corridoi della Mutua, finanche da dietro la scrivania, quando con lo sguardo duro e penetrante soggiogava l’intimidito operaio in convalescenza, costretto al colloquio per un controllo fiscale. Chiunque, agli inizi, restava affascinato da quel mezzobusto bianco, di stampo decisa mente teutonico che emergeva da dietro il piano metallico del tavolo da lavoro. Lampi sinistri baluginavano dal cranio pelato. Il colloquio, inteso come pura forma di rapporto antitetico, si svolgeva in un clima da commissariato di seconda sezione criminale, pur se a livello di interscambio prettamente… mimico.

Il sanitario, oramai uso a certe procedure burocratiche, si limitava ad ascoltare le giustificazioni e le rare rimostranze, fulminando il mutuato con la pupilla acuta da rapace in agguato. Rispondeva appena con un grugnito, affiorante tra le volute grigie di fumo dell’eterno sigaretto appeso all’angolo della bocca; tra una boccata e l’altra sfogliava gli incartamenti contenuti nel fascicolo dell’interessato, con somma indifferenza, con ostentata noncuranza e – dopo rapido esame – scarabocchiava con un ghirigoro illeggibile il frontespizio della pratica. Un gesto brusco della mano indirizzava il paziente verso l’infermiera, che fungeva da assistente nel disbrigo dei maneggi cartacei.

 

Un paziente, un sigaro, altro paziente altro sigaro

Poi, con un ultimo lampeggiare dello sguardo da falco, Siviglia posava la penna e provvedeva, stavolta con accuratezza e attenta pignoleria, ad accendersi un altro sigaretto con il mozzicone del precedente appena consumato e quindi sbriciolato con rabbia nel posacenere. Diradando la nuvola densa della prima soffiata, trasmetteva il segnale alla sua aiutante per consentire l’ingresso di un nuovo soggetto da esaminare ed eventualmente da torchiare. Un sigaro, un paziente. Altro sigaro, altro paziente. Con la medesima voluttà e determinazione. Ma soprattutto sempre con un semplice gesto, con un rapido guizzo dello sguardo e senza mai aprir bocca. E ciò non per parsimonia di eloquio o per eccesso di autoritarismo militaresco.

 

Vocino flebile e balbuziente

Si dà il caso che il monolitico, aitante ex atleta Dottor Siviglia, con leggera flessione sulla sinistra, fosse dotato di un vocino flebile, tenue e flautato, come da “evirato cantore” e risultasse per di più affetto da una incontrollabile, inguaribile, patetica balbuzie. Prerogative queste (accento querulo e incagliamenti di lingua) che, associate alla prestanza fisica e a una cert’aria di mistero trasudante dalle lunghe pause di silenzio, lo rendevano particolarmente accetto al sesso gentile. Di lui si raccoglievano in giro storie più o meno pruriginose, più o meno rispondenti al vero, certamente rivedute e corrette nei passaggi successivi dal produttore al consumatore, fino alla versione più prossima. È un po’ la sorte di tutte le vicende ridanciane mantenute in una zona di credibilità, ma modificate poi a seconda dell’uditorio, delle esigenze del momento, della euforia o delle capacità interpretative del narratore di turno. I racconti che seguono presuppongono un diretto coinvolgimento del lettore, nel senso che tutte le frasi e le battute messe in bocca al sunnominato dottor Siviglia, dovranno immaginarsi come pronunciate con le aritmie caratteristiche del balbuziente, senza una precisa inflessione o scansione di toni, né tempi di pausa. Quindi senza una punteggiatura fissa, ma con l’intervento risolutivo di alcune interiezioni o espressioni di passaggio ovvero di “cucitura”, a supplire alle involontarie sospensioni fonetiche o alle incontrollabili improvvise emissioni di fiato senza voce.

 

In sala operatoria

L’intervento, perfettamente riuscito – come si è soliti affermare nello stretto linguaggio clinico – era ormai alle ultime battute. Il Primario aveva lasciato il compito delle… rifiniture a due giovani aiuti e in sala operatoria regnava un certo clima di smobilitazione. Per quel mercoledì avevano quasi concluso. Siviglia, con cozzetta verde pisello e mascherina sterile dello stesso colore, a capo del lettino operatorio, seguiva con attenzione i manometri, i grafici della pressione e dell’E.C.G. nonché le fasi finali di ricucitura e disinfezione. Esaurito il suo compito specifico di assistente di fresca nomina e già pregustando – in mezzo all’odore acuto degli anestetici ed eteri vari – il sapore voluttuoso del sigaretto, Siviglia si tolse il berrettino dalla fronte precocemente spelata con un ampio gesto di sollievo e allentò un elastico della mascherina. Si eresse in tutta la sua possanza, stiracchiandosi con educazione.

 

Il risveglio del vecchietto

A questo punto il paziente, appena operato di ernia inguinale destra, un vecchietto asciutto e segaligno di età imprecisata, faticosamente aprì gli occhietti cisposi e vacui e si sforzò di uscire dalla fase nebbiosa dell’ipnosi da anestetico. Batté ripetutamente le palpebre, tentò di liberare le braccia legate saldamente al duro ripiano del letto operatorio ed ebbe nella mente la netta sensazione di un semicerchio di fantasmi opalescenti chini sopra di lui. Quattro “soli” accecanti risplendevano di una luminosità insostenibile nello spazio infinito. Alcuni tubicini, agganciati a qualche parte del suo corpo si perdevano su, in alto, forse appesi a strani recipienti di un’acquosa trasparenza. Non poteva muovere neppure un mignolo. Con voce incerta e impastata, resa più esitante dalla mancanza della dentiera, chiese: “M’éte sistemato?” – Quattro teste, senza espressione, annuirono simultaneamente. Qualcuno in disparte accennò una risatina sommessa. Si sentì, a distanza, il tintinnio di ferri riposti. Un rubinetto lasciava correre acqua a scroscio. I quattro soli lampeggiarono a ritmo alterno, a seconda che un profilo aureolato uscisse o meno dal cono luminescente… “Ma…’ndó’ staco ?” chiese il vecchio con un filo di voce, strabuzzando gli occhi all’indietro. Ebbe come un singulto, che andò a ripercuotersi sulle lancette dei manometri degli apparecchi di anestesia. Aveva scorto, sopra di lui, alto e solenne, il busto atletico del dottor Siviglia fasciato di verde, la fronte lustra di sudore, il capo incorniciato e santificato dalla superficie specchiante di una delle plafoniere a luce fredda della camera operatoria. “Ma insomma ‘ndó’ staco?” ansimò ancora il vecchio con un residuo di voce, facendo ricorso alla forma più familiare del dialetto delle Fosse. “In Paradiso…” celiò Siviglia, con la vocetta da serafino in coro. “E tu chi ssì?Ssssssan Pietro…” replicò prontamente il medico, finendo di sfilarsi dal viso la mascherina verdeoliva.  La esse del “san” sibilò come se uscisse dal beccuccio di un sifone di selz. Al che il nonnetto, ormai smaltiti gli ultimi fumi del penthotal, sbottò in una pittoresca serie d’epiteti e d’invettive all’indirizzo di quegli incoscienti che stavano prendendosi gioco di “… un pòru cristu comme che me… un disgraziatu… in un momentu cuscì dilicatu… ma tu guarda che jentaccia…ma non finisce cuscì… fàteme ‘rpiglià le forze, eppò atro che Paradiso!” Poi il dolore riaffiorò, la conseguente debolezza ebbe il sopravvento, il nonnetto rovesciò gli occhi e si riassopì…

Goffredo Giachini

26 settembre 2019

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