Il commesso poco udente tuttofare e la festa campagnola

PRIMO – Quel mattino il Direttore (di origini irpine) ricevette la visita di un corregionale, affermato professionista qui in città. Baci, abbracci, pacche amichevoli sulla schiena, gestualità tutta meridionale e scialo di complimenti: una ostentazione di grande familiarità e di falso cameratismo. Premendo ripetutamente il campanello, il Direttore attendeva l’arrivo del commesso. Dopo svariati inutili tentativi, scusandosi con l’ospite, decise di chiamarlo alla voce. Si alzò con veemenza da dietro la scrivania, si diresse verso la porta e per un pelo non entrò in rotta di collisione con Primo che – in effetti un po’ duro di orecchi – aveva recepito l’ultimo trillo del campanello o il successivo urlo del capo. Era l’unico commesso al piano nobile della Direzione, quel giorno, e doveva badare al centralino, allo spoglio della corrispondenza, alla fotocopiatrice, a quell’infernale attrezzo che serviva a tirare i ciclostili. Insomma, nel reparto, era solo come un cane d’agosto. Il Direttore schivò con eleganza l’impatto e con una giravolta improvvisa sibilò all’orecchio di Primo… “desidero subito (SUBITO!) due bitter analcolici”. Stavolta Primo capì al volo. Scese sbuffando i cinque piani di scale – l’ascensore, come di solito, era fuori servizio – andò al Bar di Alberto e poco dopo era di ritorno con le bevande richieste. Bussò alla porta della Direzione, col fiato grosso per la salita e, senza attendere risposta, (non l’avrebbe comunque recepita) entrò. Teneva in una mano: n° 2 bicchieri con  dentro infilate le grosse dita sporche di inchiostro da timbri; n° 2 bottigliette di analcolico strozzate nella presa dell’altra mano. Notò (se lo notò) un lieve trasalimento nell’espressione del Direttore ed allora, con il caratteristico accento pseudo romanesco, assorbito in lontani anni di permanenza nell’Urbe e con un goffo inchino, dovuto più all’artrosi che non a un atteggiamento di deferenza, esclamò come giustificazione: “Pardòni, Signor Direttore, se co’ la prèscia non presi il cabarette (così, tutto per intero, con le due T e la E finali), ma il barrista sur momento, ne era sprovviduto…”. Posò gli oggetti sul tavolo, sorrise gelido e uscì a culo indietro, dignitosamente piegato a metà. Dodici anni di vita spesi a Roma avevano fugato i congeniti impacci di buon paesano della Marca. Veniva in ufficio sempre molto curato nel vestire: i capelli ondulati, folti nonostante l’età e falsamente castano-scuri o meglio rossastri per merito di succhi rigeneratori, gli conferivano un’aria di giovanotto precocemente invecchiato. Tra i mille mestieri che la Metropoli porta a fare, Primo aveva esercitato, per un certo periodo, anche quello di comparsa a Cinecittà e i colleghi burloni, presenti in ogni comunità burocratica, avevano fatto circolare alcune sue foto in costume di guerriero vichingo. E Primo raccontava, con atteggiamento di supponenza, di aver diviso il cestino del pranzo con “Chirche Dùglese”, quando interpretava il Vichingo capo e di aver una volta aggiustato un tacco alla signora “Giannette Lèiche”. Godeva dell’amicizia – diceva – di “Ernesto Sborgnine, dimogratico e signore”. Di tutto ciò gli era rimasto un gusto notevole per il parlar forbito, vi lascio immaginare con quali stridori o assonanze. Un miscuglio di vernacolo e d’inflessioni a volte scioccanti, come quando asseriva si essere in grado di rispondere alle chiamate dei superiori “seduta standa” o di essere orgoglioso di poter usufruire, dopo anni di sacrificio, di una macchinetta tutta sua, una “Prince color becèr con il portabagaglio di sopre”.  Occasioni di ulteriori gaffes non mancavano, come quella volta che… La festa, organizzata in campagna da un collega in procinto di andare in pensione, era ormai agli sgoccioli. La “merennata” abbondante a base di prosciutto e fichi, ciauscolo e cocomero finale, aveva riscaldato ed eccitato anche i più flemmatici. Il frizzante fresco verdicchio dei colli aveva contribuito a rinfocolare l’ambiente e, al suono di un anacronistico mangiadischi, che mescolava i ritmi dello shake a quelli di una più consona “marzucca” paesana, le coppie più o meno giovani saltellavano in mezzo all’aia, tra la gazzarra delle oche e delle gallinelle ruspanti, infastidite da tanto baccano. Un bastardo, secco e decorato a chiazze, incarognito dal chiasso, andava inorgogliendo in sintonia con l’aumentare del volume della musica e, sbavando e digrignando i denti, spingeva le coppie dei ballerini a convergere verso il centro dello spiazzo. Qualcuno, mascherando la repulsione per le ire del bòtolo, inventava un passo più elastico o fuori dell’usuale, così da mostrare indifferenza alla bestia e piena padronanza di nervi alla dama. Bastò poi un urlaccio del “vergaro” perché il cane, svuotato di colpo da ogni smania di ancestrale vendetta o di propositi bellicosi, andasse ad accucciarsi mogio sotto la sua baracchetta di legno, dietro “lu pajà de casa”. Stordito dal caldo opprimente, dal frastuono del mangiadischi e dagli intermezzi canini del bastardo, mi ero per un attimo ritirato in disparte a prendere fiato e ad asciugare il sudore che colava copioso. Mi sento tirare per la manica. È Primo che, rosso in volto e ansimante, ma sempre molto compìto e dignitoso, regolarmente piegato ad angolo retto, mi fa: “Dottò, io abbisogna che me vaco via, perché comincia a fasse notte. Comunque, grazzie di tutto, a lei infinite rallegrazioni e tante esequie alla signorina che lu ‘ccompagna e che sur momento non veco…” E se ne andò camminando all’indietro con un sorriso a tutta dentiera.

Goffredo Giachini

21 maggio 2019

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