Macerata, ricordi di quando c’era l’Albergo Grand’Italia

A cavallo degli anni 50/60, c’era nel nostro parentado una sana abitudine, che si protrasse nel tempo, fino a che i più vecchi tra i nonni e gli zii non cominciarono a sparire da questo mondo per estinzione naturale.

 

Incontri di famiglia

Una volta l’anno, in concomitanza con le festività natalizie, quanti fra noi erano uniti da legami di consanguineità, si ritrovavano a casa Calcaterra, per un’assemblea conviviale voluta, gestita e offerta dal dr. Arnaldo Calcaterra medesimo, proprietario di una lussuosa dimora in pieno centro storico, di fianco alla Torre civica.

 

L’Albergo Grand’Italia

Al pianterreno del palazzo c’era l’hotel più prestigioso della città, l’Albergo Grand’Italia, con annesso ristorante che, in occasione di questo raduno, aveva il compito di allestire un succulento menù fatto di specialità locali. La materia prima non mancava, in quanto lo zio dottore, fra l’altro funzionario storico dell’Inam, aveva alle sue dipendenze, per diritto ereditario, una folta schiera di coloni mezzadri.

 

Un “single” ante litteram

Tra la folla dei parenti c’erano degli ospiti “fuori quota” tra i quali godeva di un ossequioso rispetto un certo O. T., insegnante di musica e pianoforte, originale figura di “single” ante litteram, inquilino dello zio dottore. Questo signore, anche nelle occasioni che avrebbero suggerito un aspetto più decente del consueto, si presentava in modo sciatto e approssimativo, la barba incolta, con un che di sfuggente e ambiguo nello sguardo, mascherato da occhialetti con spesse lenti scure. Lo caratterizzavano in maniera determinante le giacche lise, sempre troppo larghe e dai gomiti lucidi, di un colore grigio spento che si armonizzavano con le camicie vecchio stile dai colli consunti e lisi.

 

Le strane tendenze

Si mormorava che il maestro avesse tendenze “strane” e che molti giovani allievi lo avessero piantato dopo le prime lezioni per i movimenti delle lunghe dita di artista, non sempre limitati al solfeggio o ai tasti del pianoforte! Aveva fama di persona poco attenta all’igiene del corpo, tant’è – si diceva – che, alzandosi dalla panchetta del pianoforte, un nugolo di mosche si accanisse a pascolare nel posto prima occupato dai suoi calzoni rattoppati. Malignità che trovavano credito tra i sussurri e gli ammiccamenti dei più ingenui. E non soltanto tra di loro.

 

Le chiacchiere

Il raduno offriva il pretesto per la presentazione alle famiglie dei nuovi arrivati. Le ragazze introducevano i fidanzati, le coppie giovani portavano i figli più piccoli consentendo loro, così, l’ingresso ufficiale nell’ambito familiare, con una specie di iniziazione, di battesimo laico. I più vecchi si aggiornavano sui progressi delle generazioni di terzo o quarto livello, controllando, con accurato interesse, il procedere degli studi o gli avanzamenti di carriera. Si tracciava quindi un bilancio consuntivo dei dodici mesi trascorsi enunciando, nel contempo, programmi e speranze immediate.

 

Il calice levato del prof

Poi, con un cerimoniale ormai consacrato, si iniziava a banchettare tra lazzi scontati, scherzi, e battute di un gusto ingessato. La confusione dei commensali sempre numerosi (una volta si arrivò fino a 85 coperti!) cresceva man a mano che arrivava la servitù con le portate e si accentuavano le bevute dei vinelli frizzanti delle campagne di proprietà. Al momento del dessert il vegliardo della compagnia, lo zio Ghino, professore di matematica e computisteria, storico, economista, accademico dei Catenati, si alzava a fatica dalla poltrona a capotavola, con il calice levato in alto. Prendendo spunto dagli episodi mitologici che affrescavano i soffitti del palazzo gentilizio (il carro del Sole, il ratto di Proserpina, Leda e il cigno ecc) imbastiva uno stucchevole indirizzo di saluto e di augurio agli intervenuti, con un modo di esporre ridondante, ampolloso, che i più giovani non sopportavano a lungo.

 

La caciara

Si udivano allora risatine soffocate e, in immediato contrappunto, gli zittii dei genitori, rispettosi della saggia compostezza del vegliardo. La caciara prendeva poi il sopravvento con, in sottofondo, la sinfonia in crescendo dell’acciottolio delle maioliche e delle posate, il tintinnare dei bicchieri, le risate esagerate del dopo pasto e gli scoppi improvvisi provenienti dal caminetto acceso dove i cuginetti più discoli ed esagitati gettavano nel fuoco innocue pastiglie di stricnina, che deflagravano come piccoli petardi. Complice di tali marachelle era l’austero e compassato zio Italo, ingegnere capo di un comune della provincia, che sotto i fumi delle libagioni si esibiva, tra le squacquarate dei nipoti, in danze scomposte e improbabili stornelli stonati. Sprofondato in una poltrona d’angolo il maestro O. T. si assopiva, russando rumorosamente, fino al momento del commiato.

 

Un flûte un po’ alcolico

In una delle ultime occasioni di incontro, mamma Gigetta rimase vittima di uno scherzo di dubbio gusto da parte di un ospite mai identificato; nell’euforia degli scambi augurali una mano ignota le offrì un flûte pieno di Cordial Campari, barattato per semplice spumante. Lei, al brindisi, bevve  l’alcolico tutto d’un fiato, ebbe un malore con conseguente svenimento e fu adagiata  su un sommier del salotto buono, il corpo scosso da brividi, i piedi due pezzi di ghiaccio. Si riprese presto grazie alle sollecite cure del dott. Calcaterra e una borsa di acqua calda. Nessuno immaginava al momento che la bella signora Giachini mai più avrebbe preso parte al banchetto di Capodanno. Erano quelli i primi avvisi del male che la minava da tempo.

Goffredo Giachini

4 febbraio 2019

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