Era rimasta vedova in età giovanile con quattro figli – tre femmine e un maschio – da tirar su nonostante tutto. Ce l’aveva fatta tra mille sacrifici adattandosi alle faccende le più diverse, sgobbando nelle campagne durante i lavori stagionali o prestando la sua opera presso famiglie del posto, come succedeva un tempo nei paesi.
I figli di Persè
Enzo, il figlio maggiore su cui erano riposte le speranze e la fiducia di un avvenire più sereno per tutto il nucleo familiare, moriva agli inizi del secondo conflitto mondiale durante il servizio militare a Sappada nel bellunese. Delle tre ragazze, tutte di gradevole aspetto, una si trasferì in provincia di Pesaro con il compagno con il quale, pare, avesse concepito un figlio. Un’altra andò sposa a Guerì Menghi de Montelupò, un intraprendente figaro di paese che, venuto a Macerata, aveva aperto un dignitoso salone per uomini in pieno centro cittadino, in corso della Repubblica. La minore delle tre sorelle rimase a Montelupone, adottata da un commerciante di stoffe del posto.
La casetta
Persè di trovò a vivacchiare in paese quasi da sola fruendo di una casetta composta da una camera e cucina con ingresso a livello stradale, a ridosso delle mura urbiche. Faccio un intenzionale accenno all’abitazione della Persè che, insieme a un tratto delle mura cittadine, crollò a seguito della frana che colpì il paese nel 1980. Altre case del centro storico nel versante a mare della collina furono danneggiate, ma non colpite così seriamente come questa. Pure lo stabile della Scuola rimase lesionato con una grossa fenditura al centro e fu necessario demolirlo. È proprio vero che le disgrazie non vengono mai sole! Dopo questi eventi Persè ritenne opportuno di dover lasciare il paese e venne a vivere a Macerata presso la figlia.
I nomi di quel periodo
Sarà opportuno spiegare le origini di un nome a dir poco insolito e strano. Inutile dire della serie infinita dei nomi appioppati ai neonati, dovuti alle fantasie malate dei genitori o all’estro momentaneo dell’addetto all’ufficio anagrafe, che, presumibilmente al tempo stesso vice segretario, impiegato tuttofare e “famiglio” comunale, si trovava a ricevere le denunce delle nascite e a trascriverle negli appositi registri. Ne abbiamo lette di tutti i generi, con innumerevoli testimonianze di carattere storico e folcloristico. Ricordiamo in sede locale esempi come: Berenice, Egle, Diomira, Leonia, Imana, Clelia, Oddina, Amneris, Nicla, Arialda o anche, connesse al costrittivo Regime fascista, Italia, Adua, Libia, Ra chele. E proprio in relazione al tipo di propaganda instaurata dal Ventennio, nel settore uomini si traeva ispirazione dalla storia dell’antica Roma ed ecco: Annibale, Amilcare, Vinicio, Odoacre, Pompeo, Decio, Spartaco; o altri nomi legati alla storia più recente come Benito, Vittorio, Bruno e Dalmazio. I contestatori del regime battezzavano i loro figli con nomi come: Lavoro, Stelio (Stalin), Lenio (Lenin); ne troviamo altri prodotti dalla scarsa fantasia creativa: Primo, Secondo, Quinto, Settimio, Ottavio e via dicendo. Personaggi reali, parte indelebile del mio vissuto di adolescente in quel di Montelupone.
Il nome: Persè
Persè pare sia da addebitare a una deformazione linguistica del dialetto locale con probabile riferimento a donna Prassede, figura secondaria dei Promessi Sposi, il cui nome appariva troppo impegnativo e difficile da pronunciare nell’uso comune; in un apparato di praticità popolare in cui si tendeva (e si tende ancora) a elidere l’ultima sillaba dei vocaboli, dei verbi, dei nomi in genere (Prassede-Prassè-Persè) quando poi non si ricorreva ai soprannomi.
Una di famiglia
Questa donna frequentò per anni casa Giachini ed era considerata – a pieno diritto – una di famiglia, quando i miei erano proprietari di quel fabbricato, ora ristrutturato, che insiste sulla piazza principale di Montelupone e che oggi ospita l’Ufficio locale delle Poste. Persè non era la domestica, o “donna di servizio” come si usava dire un tempo. Partecipava attivamente al menage familiare, attenta curatrice dell’economia quotidiana, valido supporto soprattutto alle donne di casa, che poi erano mia madre e mia nonna. Affettuose e pressanti le attenzioni nei miei confronti, unico rampollo della famiglia, dopo la dolorosa scomparsa dei fratellini gemelli che, all’età di nemmeno due anni, erano rimasti vittime della difterite (lo gruppe, si diceva) malattia ritenuta incurabile, prima dell’avvento delle miracolose penicilline. Goffredino (all’età delle Elementari, rotondetto e paffutello) era apostrofato dalla Persè con gli appellativi più stravaganti come: Mastrillo, brigante dell’ottocento presente nel territorio dei Sibillini tra Marche e Abruzzo, o Jesucristoschiainello pronunciato tutto d’un fiato e, per contrasto, Barattolo, forse a ironizzare sulla mia costituzione un po’ sopra la norma o anche azzardando il più generico Vassallo, quando mi rendevo protagonista di innocue marachelle infantili…
Pratiche di magia
A tempo perso questa donna si dedicava a pratiche di magia spicciola, non potendo godere della cosiddetta “virtù” cioè di quei privilegi che consentivano – con una serie di elementi base acquisiti come investitura ereditaria tra generazioni diverse – di esercitare la “professione “ di maga (o mago). Dopo aver chiesto le intenzioni del postulante o della postulante, quasi cadendo in una stato di trance (non so dire quanto voluto) si accingeva al rito con invidiabile approssimazione; mescolando un consunto mazzo di napoletane Persè “faceva le carte” sussurrando antiche formule di apertura, apprese non so da chi e dove, chiedendo aiuto e ispirazione al Santo taumaturgo di turno.
Formule magiche
Era un bisbigliare fatto di frasi incomprensibili e di giaculatorie come: “…per chi ti ama, per chi ti desidera, per chi ti odia sotto li coppi de casa” – “…Cristo lo sa la Madonna lo vede.” – “…croce de O croce de Acca che lo diàulo non ce ‘ttacca” – “Fóri, spirito maligno da questo corpo santo” – “Melu, peru, damme lu veru: damme lu veru, la veretà: quistu qui o quistu qua?”- “Sant’Antò delle zitelle per quelle vrutte, per quelle velle…”. A dare forza al discorso, con espressioni tipiche e storpiature del dialetto locale, si percepivano come: purassà, seddonca, sincasannomai, Paradiso santo, non te noccia, lo sapé de Assunta, ecc. – L’atmosfera: la cucina con il camino acceso d’inverno, una candela sul tavolo, una mazzo di carte, un gatto acciambellato sulla sedia. Su richiesta faceva o guastava le “fatture” e poteva recarsi anche a domicilio quando c’era necessità – a esempio – “de leà li jermini” alle creature affette da disturbi intestinali. La funzione consisteva nel lasciar cadere, sempre farfugliando, alcune gocce di olio su una scodella colma di acqua. L’esito dell’intervento si coglieva, a seconda della forma che le gocce di grasso assumevano sulla superficie del liquido.
Compensi in prodotti della natura
Non pretendeva compensi in denaro, fidando sulla generosità della clientela composta in prevalenza da gente del posto. Generi alimentari sì, ad arricchire una dispensa che Persè curava con amore, procurata con il sacrificio delle peregrinazioni per la campagna circostante; a dare manforte a qualche povera famiglia di mezzadri durante la mietitura e la susseguente trebbiatura del grano, durante le fasi della vendemmia, o per la raccolta dei pomodori, delle olive, dei fagiolini, dei carciofi, del granturco. Dopo il tramonto rientrava in paese con una cesta carica di ogni ben di Dio, sostenuta in equilibrio precario sulla testa. Oppure con una “pannellata” di uova fresche, un pollo da spennare, un sacchetto di farina. Sempre disponibile, nonostante le ossa rotte dalla fatica.
La generosità di Persè
E non era raro che poi distribuisse generosamente ai “vicinati” cose che, specie in tempo di guerra, non era semplice trovare, se non al mercato nero. Donna instancabile, robusta, di carnagione mora e capelli corvini che raccoglieva in crocchia sulla nuca, conservati tali fino alla vecchiaia; così come la sua chiostra di denti bianchi e pronti al sorriso più accattivante. Occhi penetranti, scuri. Vestiva sempre con abiti a tinte brune forse a ricordo perenne degli affetti più cari persi anzitempo. L’accenno al periodo bellico di poco sopra mi serve per riportare alla memoria un episodio nel quale la Persè fu autentica protagonista.
Persè protagonista in tempo di guerra
Nel 1944, durante l’occupazione tedesca del paese, lo stabile delle vecchie Scuole Elementari di Montelupone (ora demolito e sostituito a mio parere da una costruzione inadeguata all’ambiente circostante) fu adibito a ospedaletto da campo, ovvero a posto di primo intervento per i militari feriti che provenivano dalla linea del fronte. Il Comandante del presidio, un colonnello-medico, alto, biondo, levigato, perfetto esemplare della razza ariana, fu ospitato nella nostra casa in una stanza le cui finestre davano direttamente sul fronte della scuola/ospedale. Quel tardo pomeriggio che il Colonnello Kruger – in compagnia dell’attendente – prese possesso della camera requisita dal comando tedesco, capitò un episodio che sarebbe forse sfociato in qualcosa di tragicamente irreparabile, senza il provvidenziale intervento della nostra Persè.
Il racconto del fatto “eroico”
L’ufficiale avanzava con passo marziale lungo il corridoio che conduceva alla stanza, seguito da tutti noi della famiglia (mio padre, mamma, il sottoscritto appeso alle gonne di quest’ultima, nonna Augusta e Persè) oltre a un codazzo di paesani curiosi di conoscere le sequenze dell’atto formale di occupazione… Persè, precedendo il piccolo corteo, apre con gesto solenne, l’uscio della camera. Il colonnello si blocca interdetto sul limitare, borbottando non so cosa. Anche i presenti si fermano scambiandosi urtoni e sguardi interrogativi. Kruger, fattosi improvvisamente cupo e severo, appoggia la mano sulla fondina lucidissima della pistola di ordinanza appesa al cinturone. Gli si para davanti un monumentale letto a due piazze (quello dei miei) con le spalliere nere in ferro, impreziosite da disegni floreali dipinti a mano. Il suppellettile, per un ingrato gioco delle ombre del tardo pomeriggio, appare più gigantesco e funereo che mai, grazie al rigonfiamento che “lo prete”, infilato a tempo debito, crea all’interno. Kruger non può certo immaginare e capire la usanza paesana di riscaldare le lenzuola con quel mezzo risalente a tempi remoti. Reso diffidente e sospettoso da quel… covone innaturale che gli si presenta agli occhi e pensando a chissà quali tranelli e intimidazioni, comincia a blaterare ad alta voce e a gesticolare con il braccio libero. Gli estranei alla famiglia se la squagliano di soppiatto. Papà, facendo ricorso a quel poco di francese scolastico che ricorda dai tempi del ginnasio e con l’ausilio di mamma Gigetta in apprensione di fronte alla mimica esagerata del tedesco, cerca di far capire a costui di cosa si tratti. Il letto, nella luce sfumata del tramonto e nell’alone di una piccola lampada da 15 watt che pende dal soffitto, sembra debordare dallo spazio consentito. I presenti parlano tutti a voce alta in un intreccio di parole che non fanno altro che acuire la confusione. Capisco che qualcosa non va per il giusto verso e mi stringo a mia madre, timoroso e al tempo stesso affascinato e quasi ipnotizzato dalla lucentezza di quella fondina sul cinturone, con una pistola vera! Quando la caciara raggiunge l’acme, Persè, senza che nessuno abbia il coraggio di fare un passo oltre la soglia, incurante dell’atteggiamento minaccioso del Kruger, entra, si avvicina con passo deciso al letto, lo apre leggermente sollevando il bordo della pesante trapunta ed esclama: “Qua sotta ci sta lo prete co’ la monneca… e no’ lo smanto de più seddonca li lenzoli ve se ‘gnaccia!” Il tedesco, dopo un attimo di sorpresa, scoppia in una grassa gorgogliante risata, che sul momento non fa che acuire la iniziale sensazione di gelo. Sempre ridendo come se avesse recepito appieno la spiegazione fornita con pura cadenza dialettale e l’efficacia del gesto mimico, Kruger lascia la pistola, si toglie il cappello militare, si slaccia il cinturone consegnando il tutto all’attendente che probabilmente non ha capito un’acca di quanto sta accadendo. Persè con mosse abili, sfila da sotto le coperte sia lo prete che la monneca rivelando e raccontando a modo suo il marchingegno, tra l’ilarità fattasi contagiosa. Pare che il Colonnello Kruger, durante la permanenza in paese, abbia molto apprezzato da quel momento in poi il sistema di cura… termica per sé e per l’attendente costretto a dormire in branda negli scantinati del palazzo.
Goffredo Giachini
27 dicembre 2018