Un folto e attento pubblico ha partecipato il 15 settembre alla conferenza organizzata dal Centro Studi San Claudio al Chienti presso la Basilica superiore dell’Abbazia, con relatori il dottor Fabio Pallotta e il professor Marco Materazzi, membri del gruppo di studio del progetto di Ricerca dell’Università di Camerino “Pic-Her” Picenum Heritage, ossia lo studio del patrimonio culturale delle Marche centro meridionali dal Tardo Antico all’Alto Medioevo.
Regione: finanziamento approvato e sospeso
Per questo progetto di ricerca multidisciplinare la Regione aveva approvato un finanziamento che è stato sospeso, così i risultati sono a tutt’oggi parziali: una parte delle ricerche effettuate è inedita, in attesa di autorizzazione della sovrintendenza al proseguimento delle indagini e alla pubblicazione dei risultati. Pertanto, ciò che i due ricercatori hanno potuto illustrare, è stato il lavoro svolto nel loro settore di competenza, la geoarcheologia, già anticipato nella giornata di studio del 1° luglio 2017 a Camerino, e in questa sede descritto più approfonditamente.
Fiume Chienti protagonista
Protagonista delle indagini il fiume Chienti, sia l’alta valle (verso i monti) che la bassa valle (verso il mare). Partendo dal principio che non si può andare a fare ricerche in un luogo se non se ne conosce la storia. L’idea dell’utilizzo della geoarcheologia nella valle è nata più di venti anni fa, quando il professor Carnevale, all’inizio del suo percorso di riscrittura della storia locale, contattò l’Università di Camerino per porre dubbi e suggerire ricerche in quei luoghi dove ancora oggi, almeno ufficialmente, ci sono datazioni non coerenti con lo stile architettonico e veri e propri vuoti storici dovuti alla mancanza di documentazione e reperti, e anche laddove le testimonianze scritte ci sono, non è detto che siano obiettive e veritiere.
I cambiamenti nel tempo del Chienti per mano dell’uomo
Come già si sapeva da tradizione orale, il corso del Chienti è cambiato: dalla foce del Fiastra fino alla zona di Sarrocciano, era spostato più a nord, passando in pratica alla sinistra dell’abbazia di San Claudio, mentre ora il corso è alla sua destra: un cambiamento avvenuto per mano dell’uomo. La ricostruzione, oltre alle palificazioni rinvenute nei pressi del ponte di Sforzacosta, è stata fatta mediante il censimento dei pozzi, ve ne sono a centinaia, e la carta isofreatica ha mostrato che l’area, oltre che essere più bassa dell’attuale letto del fiume, ha una falda la cui portata di acqua e l’andamento sono indipendenti dal fiume, a conferma che il fiume era lì.
Un territorio… perfetto
La geoarcheologia si occupa dello studio delle anomalie antropiche che il paesaggio nasconde, cioè come il lavoro dell’uomo nel tempo modifica il territorio, sfruttando le sue georisorse per la creazione dell’economia: la fortuna del territorio è data dalla presenza di acqua, dalla fertilità del suolo, dalla posizione favorevole per gli scambi commerciali, dalle foreste per la caccia e la legna, dal clima. Gli studiosi sanno bene altresì che gli insediamenti piceni si trovano nei luoghi migliori: i castellari su tutte le colline per il controllo del territorio; dove c’è acqua per la pesca, per la navigazione, per gli usi domestici e artigianali; dove ci sono strade per i commerci, dove ci sono estrazioni metallifere per realizzare strumenti di lavoro, armi, oggetti decorativi.
Poca attenzione per l’archeologia da politica e amministrazioni
Purtroppo si sottolinea, ancora una volta, che la politica e le amministrazioni danno priorità alla speculazione edilizia, impedendo attenzione all’archeologia, che si deve accontentare di intervenire, con molta fretta, in occasione di ritrovamenti eclatanti durante lavori edili-stradali, piuttosto che organizzare scavi sistematici, continuativi, programmati nel tempo. Comunque è indubbio che la vallata del Chienti sia sempre stata abitata e curata, continuativamente.
Primi insediamenti risalgono a 700mila anni fa
Da sfatare il mito che il Piceno fosse una sorta di campeggio: la prima traccia di occupazione antropica, cioè della presenza dell’uomo, risale a 700.000 anni fa, lo stabiliscono i ritrovamenti di selci rinvenute sulla Piana di Colfiorito, durante scavi nella Botte dei Varano dopo il sisma del ’97. I monti Primo, Igno, Mistrano, sono la sede dei più antichi culti rinvenuti nell’Appennino, con santuari, cerchi megalitici, tracce di culti delle acque.
Come, quando e perché i cambiamenti del territorio
Il territorio era ovviamente molto diverso da ora, e l’uomo già in tempi antichi lo ha modificato pesantemente, specie nel periodo romano, disboscando non solo per aumentare la superficie coltivabile, ma anche per costruire le navi, causando l’erosione del terreno, con il relativo intasamento dei fiumi di detriti e modificazione delle foci: dove i fiumi erano navigabili, si intervenne con la regimazione, ma si dovette ricorrere a zattere e non più a barche; se prima il mare era fatto di scogliere a picco, poi si formarono spiagge e allungamento delle foci e delle coste anche di 1200 metri.
Cresce l’interesse della popolazione
Oggi ci sono strumenti (corrente elettrica sul terreno, foto termiche, utilizzo di droni, georadar) e studiosi in grado di decifrare i cambiamenti del clima, i disastri ambientali, gli interventi dell’uomo. C’è anche l’interesse della popolazione quando vengono condivise le scoperte, lo dimostra la crescente partecipazione del pubblico alle conferenze. Manca il sostegno delle Istituzioni, disattente a questi tesori che possono fare una economia ricca, cosa di cui sono consapevoli tanti altri Paesi, che rispetto al nostro hanno meno ma molto meno da mostrare.
Simonetta Borgiani
24 novembre 2018