“Terè de Cirilla” e antiche espressioni popolari – II puntata

Il sostantivo corrispondente “cojone” viene usato nel significato di “tonto, tontolone”. Onde evitare scurrilità lo si sostituisce spesso con la parola “minchione”. Se, però, come sospetto, in effetti, questo termine è l’accrescitivo di “minchia” (dialetto siciliano), il rimedio è peggiore del male. Infatti, in pratica è l’equivalente di “cazzone o cazzolone”. “Li cazzulù de la Penna” si diceva una volta, probabilmente senza un motivo; così come si dice “li ladri de Pesaro”, “li zinghiri de Montormo”, “li vrugnulù de Macerata”, “li matti de Mojà” o, ancora, “Pitriolu magnacà”.

 

Frase celebre in Consiglio comunale

Non vorrei scivolare nello scurrile però mi pare un peccato non riportare la celebre frase che pronunciò in Consiglio comunale un Consigliere di maggioranza che, per la rabbia, non poté trattenersi dall’interrompere quello di opposizione, che stava con veemenza facendo l’elenco di veri, o presunti errori, della Giunta comunale, con questa frase passata alla storia: “Eh no, f…a no! Quissi è c…i che non tène!” Traduzione: “Eh no, perbacco no! Codesti sono argomenti pretestuosi, che non reggono!”

 

Tira più un pilu…

E, già che siamo scivolati, si potrebbe arrivare al top citando un detto, che nelle varie lingue e dialetti ritengo sia diffuso in tutto il mondo; però per pudore lo riporto nei versi alati di Giuseppe Procaccini in “Felici incontri”: “Dònne vèlle, / còre nóstru, / un pìlu vóstru / tìra più d’ùn pàr de vò”. Non posso chiudere senza rendere giustizia a mia zia Terè de Cirilla, con la quale ho iniziato questo excursus.

 

Proposta d’intitolazione

Prima della metà degli anni ‘60 (lei era morta da alcuni anni) un autorevole esponente dell’Amministrazione comunale di Corridonia mi disse che nella toponomastica, in allestimento, della  progettata e in parte  realizzata, zona artigianale era prevista una via intitolata a Teresa Tantalocco. Quando mi fui ripreso dalla mia espressione d’incredula meraviglia mi spiegò che Terè, da giovane, tutti i giorni e qualche volta anche due volte al giorno, con la canestra sulla testa faceva a piedi la spola tra Corridonia, Monte San Giusto e Montegranaro per portare agli artigiani di Corridonia i vari componenti delle calzature e riportare poi queste, finite, agli artigiani di quei paesi (e, forse, anche viceversa). Aveva così contribuito in modo importante alla nascita e allo sviluppo dell’artigianato calzaturiero corridoniano.

 

Terè e le sue tappe nel cammino

Alcuni anni dopo conobbi un noto artigiano di Montegranaro che, subito, mi domandò di Terè. Per strada, al ritorno, lei si fermava presso qualche casa di contadini per riposare ma, soprattutto, per prendere qualche piccola commissione da fare in paese, ricevendo in compenso per il servizio un pezzo di lardo o qualche salsiccia o una “cotta” d’erbe o altro per tirare avanti. Poi, dopo aver bevuto un bicchiere di vino, “insistentemente” offerto e non rifiutato “per educazione”, si rimetteva in cammino. Quando arrivava a casa è facile immaginare che fosse, come si diceva, “cotta”, non tanto per i due bicchieri di vino quanto per la stanchezza.

 

Carattere schietto

Schietta di carattere, abituata a farsi i fatti suoi senza dare noia a nessuno ma insofferente verso chi senza motivo la provocava; alta di statura, diritta come un fuso, il viso asciutto bruciato estate e inverno per il sole e per il freddo, ben piantata sulle gambe, non aveva pura di alcuno, uomo o donna che fosse. Quindi se qualcuno si azzardava a fare lo spiritoso o, peggio, il prepotente, trovava pane per i suoi denti. Poi, alla fine, come spesso accade, passava da ‘gnorante lei anziché il provocatore.

 

I viaggi a San Chiodu e a Trodaca

La ricordo ormai anziana verso la fine della guerra, quando ero ancora bambino. A quel tempo quando partiva con la sua canestra andava prevalentemente a “San Chiodu” o a “Trodaca”. Una volta, dopo aver saputo che durante gli anni di guerra era andata più volte a piedi con la sua canestra a trovare la figlia, zia Armida, a Porto Recanati, le domandai come avesse potuto fare tanta strada. Mi rispose (ricordo le sue testuali parole): “Coccu mia, che ce vòle; passi pe’ li munti e ppo’ de vutti jó e sì ‘rriàtu”. Della via da intitolarsi a lei non si è più parlato: colpa del presunto amore per il vino e del suo “caratteraccio”? La ricordo sobria e di buon carattere. Bastava non importunarla. 

 Ubaldo Tantalocco

16 settembre 2018

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