Poteva accadere che ci s’imprestasse anche la legna e il carbone, quando si rimaneva sprovvisti momentaneamente. D’inverno ci si riscaldava con il caminetto e un dolce tepore riempiva la cucina; per riscaldare il letto si usavano il trabiccolo di legno chiamato “prete” e la “monaca”, recipiente di coccio con manico contenente le braci. E quel calduccio sotto le lenzuola era quanto di meglio si potesse gustare in quelle case così fredde; dopo aver battuto i denti mentre ci si svestiva, si entrava gongolanti in un guscio di piacere.
Carbone da Boccasecca
Per cucinare si usava il carbone, le donne presso i fornelli con la ventola di penne avevano un bel da fare per mantenere vigorosa la fiamma. Tutte le volte che la mamma m’incaricava di comperare il carbone da “Boccasecca”, in cima alla via (oggi via IV Novembre), andavo molto volentieri in quella bottega fornita di sementi, di spezie, di carrube dette “fave dei cavalli”, di droghe per cucina, di liquirizie, di cere, di lucido per scarpe, di tinte per stoffe, di soda e pomice per lavare piatti e pentole e di tante altre cose; aleggiavano aromi particolari e specialmente il reparto del carbone era quello che mi attirava di più. Era tutto nero e polveroso ma il profumo intenso e specifico del carbone m’inebriava; respiravo a pieni polmoni ed ero contenta se potevo dilungarmi.
In regalo una pasticca di liquirizia
Ma Boccasecca, così denominato per la sua bocca a taglio largo senza accenno di labbra, con la stadera in equilibrio mi riportava alla realtà: “Ecco pesato un chilo di carbone!” e io a malincuore stendevo le venti lire che la mamma mi aveva dato per l’acquisto. Talvolta Boccasecca mi regalava una pasticca di liquirizia ma credo che lo facesse a discapito di un pezzo di carbone. Pare che ai miei primi passi mettessi in bocca pezzetti di carbone; il medico Spadoni spiegò alla mamma che avevo bisogno di calcio.
Virginia la cartolaia, Formentini…
Ero felice anche quando andavo ad acquistare “Grand-Hotel” per la mamma da Virginia, la cartolaia, o cinque lire di aghi alla merceria di Renato o una lampadina da Formentini, tutti negozi che attiravano la mia curiosità. Oppure accompagnavo mia nonna a far la spesa al Consorzio, o da Vittò, o da Laurina per un cartoccetto di conserva, un etto di sardelle e duecento grammi di zucchero nella carta paglierina. Mi piaceva tanto entrare nel negozietto di Piccina, la fruttivendola che esponeva delle bellissime mele. “Sono buone queste mele?” chiedeva mia nonna e rispondeva immancabilmente Piccina, lisciando la mela più rossa e più appetibile: “Adè dórge come lo mèle e tènere come la ruta!”
Cesarina, Panata, Righetta…
Talvolta si andava da Cesarina perché si doveva comperare un busto, o da Panata, il sarto, da Righetta la rammendatrice o da Giulio, il materassaio: tutte occasioni per uscire dal cortile e infilarmi l’abitino più bello confezionato dalla mamma, che era molto brava nell’arte del cucito. A volte, passando davanti all’osteria della “Toscana” m’infastidiva l’odore dolciastro di vino che impregnava l’aria, ma mi attirava moltissimo il suono di una chitarra.
Battilosse e Corruccì
Era Battilosse che, lasciato in un cantuccio il suo canestro colmo di lacci da scarpe, di lucido, di forcine per capelli, di pettinelle per tenere lontani i pidocchi, riposava le sue ossa condividendo con Corruccì, lo stalliere, la “Messa alta”, così come essi chiamavano un litro di vino. Ma Corruccì di “Messe basse”, o di mezzi litri, ne aveva già ingurgitate diverse e quel suo berretto grasso e unto, schiacciato sugli occhi, accentuava il suo aspetto da “brillo”. Andava poi barcollando a smaltire quella sbornia nella stalla, fra i suoi cavalli, si buttava giù e si addormentava tra la paglia come un angelo, incurante della miriade di scarafaggi che infestavano ambiente e giaciglio.
Anna Zanconi
20 agosto 2018