È nato prima l’Uovo (di Pitino) oppure Roma?

Ho appena ricevuto il n. 238 de La rucola e sento il dovere di esprimere subito le mie congratulazioni specialmente per alcune delle informazioni che, leggendo, mi hanno particolarmente colpito. Delle quali due in particolare: quella su Leopardi e l’altra sull’archeologia locale.

 

Il viatico di Giacomo Leopardi

Riguardo alla prima, vorrei aggiungere questa osservazione di carattere letterario. E cioè che si sta celebrando ovunque, e con la più accademica delle magniloquenze, il bicentenario dell’idillio “L’infinito” come, nel 1818, fu immaginato dal giovane Leopardi sul Monte Tabor, in faccia a Pitino. Qui alla buona e per il tramite de La rucola (perché nessun’altra rivista, solo a parole “liberale”, pubblicherebbe questa notizia) vorrei poter dire che per il poeta, alla fine, l’Infinito non fu uno straordinario “non-si-sa-che”, ma Dio nella persona del “rabbi” Gesù. È tuttora, dai cultori dell’informazione accademica più ufficiale, fatto silenzio o proibito che si dica e si faccia sapere che il Leopardi, sentendosi morire, fece nientemeno che la sua ultima “palinodia”: annegando nell’Amore infinito il suo pensiero, fece chiamare il prete e prese il Viatico.

 

I ricchi Piceni

L’altra notizia è quella sull’archeologia locale, perché del poter vivere sulla cima del colle di Pitino, chi scrive ha fatto l’occupazione principale del vivere suo. Ma, perché essa sia interessante per tutti, basterebbe rimeditare frasi come queste: a) Nel sottosuolo dell’antico territorio piceno () ricchissimo di storia (e di reperti di ogni tipo) va indagato più d’un sito ben più importante, non fosse altro perché più vecchio di almeno mille anni rispetto a Roma. b) Basta quindi con la favoletta che i pecorai della Sabina vennero a civilizzare i rozzi Piceni, perché nel Piceno di rozzi indigeni non c’è traccia, mentre ci sono tracce rilevantissime di un popolo ricco, che aveva carri da guerra e da trasporto (le tre Salarie che sono solo nelle Marche).

 

Gli antichi Piceni

A questo vorrei aggiungere e sottoporre all’attenzione di chi legge una banale considerazione, questa: se Numa Pompilio e Anco Marzio sono i nomi di due dei sette re di Roma; e se è vero – così dicevano gli antichi Romani (e già allora, Roma locuta, causa finita) – che nomina sunt consequentia rerum, cioè che i nomi hanno un rapporto di provenienza con le cose, allora Numa Pompilio deriverebbe da Numana e Anco Marzio (suo nipote) da Ancona. Per cui i Piceni delle nostre valli, se non più antichi, erano antichi quanto e non meno dei Latini, degli Umbri e degli Etruschi.

 

Plinio il Vecchio: In agro Pitinate

Farò per questo qui ricordare che Plinio il Vecchio ben conosceva Pitino e l’estensione del suo territorio (ager) se scrisse: In agro Pitinate trans Appenninum fluvius Numanus; dove, però e per alcuni, Numanus starebbe per Vomanus. Ma Numanus per Vomanus non può essere il fiume Vomano in Abruzzo, ma solo uno dei fiumi alla foce vicini a Numana e poi detto (oggi) con altro nome: Chienti-Potenza-Musone. Perché, diversamente che in zone oltre il nord della Marca, non si è ancora né letto né saputo (lo ignoro?) di alcun “agro pitinate” in Abruzzo. Rimane, quindi, che si è di fronte non a un errore geografico o altro, ma solo a quello d’un amanuense che trascrive la Naturalis historia di Plinio (oppure alla semplice corruzione paleografica di una Nu in Vo). Ma a favore di questa d’acchito stramba novità (di fare quasi come fondatori di Roma i Piceni piuttosto e prima dei Latini), si può portare un’altra prova.

 

L’uovo di struzzo inciso

Una prova non come quella già fatta, solo nominale, cioè di sole parole, ma anche archeologica. Questa è sintetizzata dal detto ex archaeologia semper ali­quid novi, cioè di più antico. La frase permette, se non altro, di supporre che Pitino, col suo porto naturale di Numana, era, stando ai reperti, in parte ancora nascosti, di quel “tesoro archeologico” “in agro pitinate” (frase del re Gustavo Adolfo di Svezia, in un sopralluogo a Pitino insieme con Sabatino Moscati) – permette anche di supporre che Pitino era più antico – pare – di Roma stessa. Dico “pare” per prudenza, perché, per non dirlo, basterebbe considerare senza pregiudizi la provenienza, la straordinaria fattura e l’enorme informazione che offre anche uno solo di quei reperti: quell’uovo di struzzo inciso.

Ci sono a Roma reperti più antichi di quelli di Pitino?

La conclusione ovvia (e l’ovvio non si dimostra) sarebbe, a costo di far ridere, questa: se due dei re fondatori di Roma erano Piceni e se Pitino è così antico, allora antichi (se non più antichi) sono da considerarsi anche i Piceni delle nostre valli rispetto ai Latini, agli Umbri e agli Etruschi. Ergo, la domanda è: si sono trovati o si troveranno a Roma e dintorni reperti assai più antichi di quelli di Pitino? In attesa di saperlo in qualche modo da qualcuno, prendo il coraggio di chiedere al Direttore una delle tante cose difficili che può e sa fare: provare a convincere (certo con le buone, come conviene con una dama di palazzo) la sindaco (sic!) sanseverinate a operare in modo che, finalmente, il suo Municipio impedisca che, almeno le reliquie in cui esso ha ridotto ciò che è rimasto della demolizione di Pitino – un gioiello di tutti perché del Piceno – vadano a finire, per sua avversione secolare e ora per incuria, non altrove che nel nulla.

Pacifico Fattobene

23 giugno 2018

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