Un personaggio maceratese: Popò, barba, capelli e fantasia

La bottega del barbiere rappresenta, da sempre, un circolo di varia umanità e cultura, in relazione alla eterogeneità e dimensione dei crani e delle gote che si sottopongono alle periodiche cure del tonsore. Soprattutto perché, sotto la carezza leggera dei ferri, inevitabilmente si è stimolati a parlare, a confessare dubbi e incertezze, a cercare un conforto, a elargire e scambiare pettegolezzi.

 

Argomenti da barbieria

E così in barbieria si tratta prevalentemente: de lu palló, de politica (e di spunti in tal senso mai ne mancano), de pinzió, de tasse, de spusalizi ghjti vè’, de matrimoni ghjti a monde, de corne, de lo male de quistu, de quillu che… De li morti se parla poco o gnende.

 

Popò

Tra i vari “figari” operanti  in centro storico, si distingueva Elio Cecconi, detto Popò, alias Maciste per gli amici più intimi, con allusione alla sua corporatura assai minuta seppure proporzionata.  Qualcuno lo chiamava anche “battiscopa” o “rasotèra” ma Elio non se ne aveva a male. Anzi!

 

La vuttìca

La “vuttìca” era l’esatto contrario di più sofisticati saloni da acconciatore maschile; consisteva in un angusto spazio, ricavato forse dalla parte terminale di un corridoio con lo sbocco sulla strada (i vecchi sostenevano che, ‘na òrda, era l’entrata della Trattoria “Da Urìolo, chi va e chi viene”). L’arredo consisteva in due poltrone girevoli con il poggiatesta estraibile, due sedie a disposizione della clientela e pure una specchiera lunga quanto la parete che creava infinite fughe prospettiche, con lo straniante moltiplicarsi delle immagini riflesse.

 

Il barbiere dei bambini

In questo mondo da “piccolo” artigiano, Popò agiva con una gestualità rapida ed usuale, vorticando come un’allegra trottola intorno alle teste da  aggiustare o alle facce da radere, arricchendo la mimica da clown con battute estemporanee o ammiccanti. Era il barbiere preferito dai bambini che, com’è noto, hanno inizialmente una certa ritrosia a farsi toccare i capelli. Ma Popò, così minuscolo col suo metro e cinquanta,  si collocava all’altezza dei loro occhi quando  sedevano  sul seggiolino a testa di cavalluccio a dondolo e, manovrando e piroettando, sapeva distrarli dalla operazione principale, con una felicità infantile, con le  spiritosaggini, con mille innocenti scherzi.

 

Il “salotto”

Si andava da lui anche oltre le scadenze degli orari, per assaporare una pausa di serenità, dopo le fatiche quotidiane. Via Garibaldi –  sede della bottega – nei pomeriggi d’estate, verso il tramonto, offriva zone di merigghja ventilata e ricca dei profumi dei sottostanti viali di circonvallazione e della prossima campagna. E così nel salotto di Cecconi era un alternarsi di presenze, un viavai di persone di ambo i sessi desiderose di una briciola di buonumore, di un complimento, di un motto di complicità. Il piccolo figaro sapeva accontentare un po’ tutti, con la sua arguzia e bonomia.

 

L’intercalare

Usava spesso un intercalare che sembrava racchiudere nella sua repentinità la saggia rassegnazione agli umani  destini “Puritti nù’… puritti nù’…” (Poveri noi, poveri noi ). Ripetuto come una cantilena, andava a costituire  la base ritmica per chi, sotto le forbici, provava a intonare sottovoce un motivetto in voga;  subito assecondato dall’Elio che, oltretutto, era dotato di una stentorea voce tenorile con la quale accennava romanze d’opera, canzonette o arie da operette. Quanto gli restava degli spettacoli ai quali aveva preso parte nei lunghi anni di militanza nel teatro amatoriale.

 

Battute e pantomime

Se un cliente, al suo turno, notando e indicando la poltrona vuota, chiedeva educatamente: “Posso accomodarmi?” la risposta inattesa e fulminea era: “E che… sì ruttu?”(E che… sei rotto?). Ti avvolgeva il collo con l’asciugamano sciorinato con ampia gestualità e poi mimava uno strangolamento, tirando i lembi con finta ferocia. Inciampava con le forbici, pungendo leggermente la pelle della nuca, o ingannava il cliente con il colpo maldestro del rasoio, quando già aveva chiuso l’attrezzo.

 

Gli amici

Gli amici più cari, con i quali aveva condiviso la comune passione per le scene erano Silvio Spaccesi, Fefè Uckmar, Euro Saltari, Franco Brinati, Gigetto Zega. Alcuni lo ricordavano ottimo caratterista nell’operetta “Il Marchese del Grillo” a fianco dei fratelli Matteucci, al Teatro dei Salesiani. Sembrava ripetere nella vita di tutti i giorni il fascinoso gioco delle parti, misurandosi, così mingherlino, con omoni corpulenti e debordanti (i fratelli Montaguti, Lisandró de lu Sfiristeriu, Romè lu vellu de le Casette e figlio, Giacinto Carmenati e figlio…), battendoli in furbizia e simpatica prontezza. Quasi un novello Charlot, alle prese con le prevaricazioni dei prepotenti.

 

Le battute celebri

Memorabili le scenette, le macchiette, i monologhi, proposti negli anni cinquanta, con la perizia di attore consumato nell’ambito degli spettacoli di arte varia al cine-teatro Excelsior. Molte delle sue battute da ‘mbriacu  finiranno nel repertorio di comici di levatura nazionale. Altre entrarono in uso nell’idioma locale, come normali interiezioni. Un esempio: “Agghjo fatto le fotocrafie a menzo fusto”. Un medico che, nella finzione scenica di una gag, chiede: “Popò, hai mai sofferto di emicrania?” Popò replica: “De micragna? Sempre, da quanno sò’ natu… d’impertutto… specie su le saccocce”. O anche: “Popò, sei mai stato a letto con  la rosolia o con l’erisipola?” e Popò:  “Oh, per chi m’hì pijatu? Io a mójema jé vòjo troppo vè’!” O anche: “A ziu ‘Gnilittu j’à pijatu ‘n’attaccu de ‘ngilina pecoris…” (ovviamente di angina pectoris…) – “Mòjema non c’è purzuta vinì perché… ci/ha le ‘mministrazioni lende!”  (mestruazioni) – “Io so’ un moccó spiciale perché  le cose vere ce l’agghjo sempre davanti all’occhj, quelle supposte de rèto…”. Altra battuta: “Che òrda faccio l’incrociatore… mmischio l’animali… ma ‘sta òrda è ghjta male… ho ‘cchiappato una cornacchia e l’agghjo ‘ncrociata co’ ‘na pirnice… è scappata fòra ‘na pernacchia in curnice!”

 

Lu ‘mbriàcu

Riassaporo con piacere l’ilarità contagiosa della macchietta “de lu ‘mbriacu” appunto; e rivedo il piccolo grande Popò, (parrucchetta rossa a caschetto, fazzolettone variopinto al collo, gilet a quadrettoni, una patata  di naso rubizzo) trasportare con fatica barcollando una grossa pesante boccia di legno colorato da un lato all’altro del palcoscenico; la boccia finisce rotolando dietro le quinte. Popò inciampa, finge la caduta, insegue la palla, la raccoglie e, sempre malfermo sulle gambe, torna in scena e, farfugliando, la scaglia con violenza verso il pubblico. Urla di raccapriccio dalla platea: “Aho… ma che ti sì ‘mmattitu!?” – “Che sì ‘mbriacu per daèro!?” Popò ride sgangherato e   sfotte gli spettatori. La boccia, come per miracolo, si è trasformata in una innocua rimbalzante palla di gomma!

 

La valigetta…

La valigetta con i suoi strumenti da attore, mi confessa il figlio Sergio (in arte Ser Chey, poeta e scrittore), è ancora là, sull’urdemo cassittu de lu comò su la càmmora da lettu, chiusa a chiave e impolverata, da quando Elio Cecconi  ha lasciato il bizzarro palcoscenico dell’esistenza terrena. Nessuno, finora, ha avuto il coraggio di infrangere la patina di malinconica poesia che avvolge quelle piccole cose, testimonianza di vita di un autentico artista, barbiere per caso. Puritti nu…puritti nu!

Goffredo Giachini

19 giugno 2018

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