Quattro passi tra casa e ufficio: la farmacia di Montelupone

Mamma Gigetta, con l’aiuto della signora Mariani, si arrangiava a confezionare dolci casalinghi della nostra tradizione. Un pomeriggio mi diede l’incarico di acquistare in farmacia la… cartina per il ciambellone (lu ciammellottu) che prevedeva 10 grammi di cremore e 5 di bicarbonato. Alla mia richiesta, il burbero titolare in camice bianco che stazionava in permanenza alla cassa, sbottò in una grassa risata e, trattandomi implicitamente da burino ignorante, disse: “Da secoli non si preparano più cose di questo genere e di questi pesi… adesso – aggiunse – si trovano bustine preconfezionate ad hoc in vendita presso negozi di alimentari!” Tornando a casa avvilito e seccato per la figuraccia, riferii il tutto a mia madre che si sorprese quanto me della novità. Al momento, quasi fosse  una forma  di  intima  rivalsa alle invenzioni del mondo moderno, tornai con la mente al fascino segreto e magico della farmacia di paese, alle sue atmosfere fumose, ai misteri delle alchimie del retrobottega.

 

La farmacia

Il locale era al di sotto del livello stradale e, per accedervi, bisognava scendere alcuni gradini. D’inverno veniva riscaldato da un tondo braciere di rame, dalle maniglie barocche, posto al centro della stanza e traboccante di carbonella. Contribuiva alla bisogna l’alito degli ospiti che, dopo il tramonto, animavano l’angusto spazio di quel salotto di altri tempi. Un leggero velo di panna ricopriva le vetrinette di un biancore asettico, con i flaconi e le scatole di medicine in bella vista.

 

I personaggi del paese

Uno per volta, quasi in una sequenza di balletto, entravano in scena il podestà, il veterinario, l’arciprete  rubizzo  e invadente, la “levatrice” segaligna, il medico “condotto”, il brigadiere della benemerita, il daziere. Le autorità del borgo. Dietro il bancone di massello di noce americana, troneggiava come una matrona di antico lignaggio la sòra Marietta, in abiti di colore perennemente scuro con sulle spalle una mantellina di grossa lana lavorata ai ferri. Faccione tondo sotto un cespo di capelli di candida seta raccolti a chignon, occhialetti a pince-nez sulla patata del naso, i piedi poggiati sulla grata dello scaldino metallico, ricolmo anch’esso di brace ardente. Da una tenda rosso/sporco che fungeva da divisorio tra il locale e il retrobottega, si affacciavano a turno, per partecipare alla conversazione, il farmacista direttore dell’esercizio o una delle donne del parentado, avvizzita negli anni, in uniforme gualcita di aiuto-speziale.

 

Lu lattarolu

A una cert’ora del tardo pomeriggio, tra pulviscoli di nevischio o fumi di nebbia, compariva “lu lattarolo” con i pesanti bidoni di latte appena munto, tenuti uno per mano. I misurini da un quarto, mezzo litro o litro che facevano un allegro scampanio rimbalzando sul metallo dei grossi contenitori. Salutava contegnoso i presenti e si eclissava malfermo per il peso, dietro un pertugio a vetri che immetteva nella cucina, regno incontrastato della fedele Vittò’. Quest’ultima, domestica ingobbita dagli anni e dagli affanni, una volta ricevuta la razione di latte, riaccompagnava l’uomo, che proseguiva nel suo itinerario destinato a rifornire casa per casa la clientela, com’era d’uso.

 

Vittò

Appoggiata allo stipite dell’uscio di comunicazione, Vittò s’inseriva nel cicaleccio collettivo, facendo appello a un gusto tutto popolano del conversare, attingendo a espressioni di ingenua malizia o a fantomatiche credenze fataliste. Probabilmente soffriva – tra le tante iatture dell’età – di incontinenza vescicale e bastava sfiorarla, per essere avvolti da effluvi compositi di urina stantia, fumo di legna umida, odore di cipolla e di soffritto di lardo di maiale.

 

Le richieste dei clienti

Spesso le chiacchiere andavano a coprire le impacciate richieste di un cliente occasionale che, dopo aver indugiato sull’ingresso a scrutare con attenzione il numero e l’identità degli astanti, osava chiedere con un filo di voce alla sòra Marietta, lo “sciroppo Fàmele pe’ la tosce”, un “ciroto Bertelli pe’ li dolori romantici” (cerotto per i reumatismi) una pomata “pe’ li vrosciòli de lo frico” (acne del ragazzino), le “capuzzole” che lu vitrinaio dicìa de mmischià co’ lo fiè pe’ la ‘acca che ci/ha poco rrùmo (capsule che il veterinario consigliava di mescolare con il foraggio per la mucca con poco rumine).

 

Estate: salotto all’esterno

Ai primi tepori dell’estate, il salotto si trasferiva all’esterno. Poltrone di vimini, sedie a sdraio, panche, panchette e quant’altro facesse parte dell’arredo della farmacia, andavano a occupare un lungo settore del marciapiede tra l’ingresso della spezieria e il vicino spaccio delle carni. C’era forse la ricerca inconscia di sublimare una usanza che, nonostante lo scorrere del tempo, o forse il presentimento dell’incombente perdita di una gelosa riservatezza tutta paesana, non si era mai cancellata dalla grafia del vivere quotidiano. Nel borgo la siesta davanti ai portoni di casa era un’abitudine che dava un senso rassicurante alla comunicazione diretta col vicino, alleggeriva la fatica monotona se compiuta fra le mura domestiche, ribadiva il piacere  della  conversazione  fine  a  se stessa. E così, con le ombre lunghe del tramonto, tra lume e scuro (come si diceva), ché prima i raggi cocenti del sole avrebbero impedito qualunque stazionamento di persone e cose, sedie e poltrone erano pronte ad accogliere i deretani  di quanti desiderassero trascorrere una fetta di tempo in completa rilassatezza, prima di ritirarsi.

 

Pettegolezzi

Era l’occasione per spettegolare, per descrivere i rispettivi mali, veri o presunti che fossero; bastava parlarne e già pareva di aver trovato sollievo. Era un estremo bisogno di liberazione che veniva esaltato forse dal contatto con la confinante bottega dei farmaci e un vago sentore di lisoformio che trasudava dai muri. E poi si affrontavano gli argomenti del giorno, si malignava, si analizzavano i “si dice…” e i  “pare che…”, si stigmatizzavano comportamenti, si interpellavano quanti si trovassero a transitare lungo la via, in attesa dell’arrivo delle “autorità”.

 

Aldo, il matto buono

I paesani, salutando con timido ossequio e facendosi da parte, erano costretti a deviare le traiettorie e a scendere dal marciapiede sull’acciottolato, per non disturbare, con la loro fugace presenza, quella assise di notabili. L’unico a dimostrare il più totale disinteresse per il consueto conciliabolo pre-serale, era un omone di mezza età, di gradevole aspetto fisico, lo sguardo vacuo, con un baschetto di colore anonimo calcato fin sugli occhi. Razzolando fra le poltrone, pestando piedi e costringendo a improvvisi e annoiati arretramenti, Aldo, il matto/buono, agiva con assoluto distacco e ostentata abulia, e sembrava nutrire un senso di ironica commiserazione per quei mortali  che mostravano modi di affrontare la vita tanto diversi e lontani  dai  suoi. Avrà  intuito l’assurdità di quella immobile rassegna di tipologia umana, quasi uno stantìo museo delle cere? Sta di fatto che, a volte, un impercettibile ed enigmatico sorriso gli increspava il tondo faccione, creando una rete di rughe intorno agli occhi assenti. Con un pacco di giornali o di cartacce gualcite sotto il braccio e fra le mani una spazzola o un cencio colorato, Aldo passava oltre la schiera dei sussurri e dei commenti, biascicando delle frasi sconnesse, che non erano saluti, né giudizi, né altro.

 

Pacca sulle spalle e sputo per terra

L’unico gesto di complicità era, a seconda dell’ora e  dell’umore, una pacca sulle spalle di uno degli ospiti, accompagnata da un elegante sputo a terra! Aldo troppi ne avrebbe fatti di passaggi se una anonima donnetta che lo accompagnava (oggi diremmo la badante) non lo avesse dissuaso, con dolce amorevolezza, dal continuare l’inconcludente andirivieni tra i piedi della gente. Aldo si lasciava docilmente guidare “fuori porta” per la consueta passeggiata intorno alle mura del paese e la successiva e necessaria sosta al Pincetto, che si affaccia con aperto respiro verso la porzione di mare visibile tra il Cònero e il litorale di Porto Civitanova. Fregandosene del prossimo e degli inevitabili atteggiamenti di finta complicità da parte di quanti stavano qui a godere il fresco della pinetina e i toni pastello del panorama, si appartava sornione dietro la siepe di mortella, armeggiava per un attimo con la patta dei calzoni, poi pisciava con sonora soddisfazione, mugolando e ridendo a piena gola. Era l’ultimo sberleffo della giornata ad una umanità tanto gretta e a suo giudizio illogica e inconcludente. Poi rientrava per la cena e per il meritato riposo notturno.

Goffredo Giachini

3 aprile 2018

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