Finite le elementari a Montelupone, i miei decisero che per frequentare le Scuole Medie era necessario il mio trasferimento a “Macerata granne”. Erano gli anni dell’occupazione alleata e il governo aveva deciso che per ovvi motivi di organizzazione amministrativa e logistica, andavano sospesi per il momento i tanto temuti esami di “ammissione” alle scuole superiori. Di conseguenza per accedere alle Medie erano sufficienti i voti in pagella della quinta elementare.
…perché màmmeta èra la maéstra!
Mi piace accennare per inciso a un curioso episodio che, alcuni mesi fa, mi è occorso in quel di Montelupone. Nella triste evenienza di una cerimonia funebre, mi si è avvicinato R*** un paesano mio coetaneo, il quale, con atteggiamento di complice omertà, ha tratto di tasca un piccolo ritaglio spiegazzato di quaderno a quadretti (un pizzino oggi si direbbe) su cui erano elencati i nomi, il mio compreso, degli alunni di una classe quinta della Scuola Elementare del paese. L’anno scolastico era il 1943/44. Eravamo in chiesa e, ringraziando per il sorprendente omaggio, accennai, quasi con circospezione, al fatto che – all’epoca – non avevo sostenuto gli esami di ammissione. Circostanza che mi aveva colpito assai, se ho ancora nella memoria il sollievo per la situazione di favore che si era venuta a creare. L’amico R*** per tutta risposta ribatté: “Certo che l’esami no’ li sì dati, perché mammeta era la maestra!”– In effetti mia madre aveva fatto alcune supplenze in quella scuola, ma le parole di Righetto lasciavano presupporre che io fossi l’unico beneficiario del provvedimento governativo, che ovviamente interessava tutti gli alunni delle quinte elementari di quei tempi. Pensare come certe convinzioni restino radicate anche a più di 70 anni di distanza!
Argìa e Mèrope
Inizialmente, dunque, fui accolto a Macerata da lontane parenti, due gentili signore i cui nomi loro appioppati, secondo le mode del periodo di loro nascita, erano Argìa e Mèrope (!). La sòra Argìa me la ricordo affetta da un male cronico che le causava un incessante incontrollabile tentennamento del capo: insomma pareva dicesse sempre di no a tutto e a tutti. Tra le comuni conoscenze e parentele si narravano gustosi aneddoti in proposito. L’appartamento si trovava in Largo Affede e con me sedeva a tavola una cugina più grande di età, con una lunga banda di riccioli bruni a coprire un solo lato del viso (alla Veronica Lake – diva del cinema americano – diceva lei); la ragazza a volte mi assumeva in veste di chaperon quando, in assenza delle amiche, si dedicava al preserale “struscio” lungo il Corso (ora della Repubblica). In un secondo tempo venni in città insieme con mio padre.
Sante Monachesi
Sospeso da ogni impiego retribuito per ragioni politiche (era stato “epurato” come si diceva allora), rimediava una misera paga facendo l’avventizio contabile presso una ditta di grossisti alimentari. La situazione postbellica non consentiva un regolare pendolarismo. Scarseggiavano i normali mezzi di comunicazione. Pochissimi quelli privati. A Montelupone esisteva un solo taxi… Per cui fummo costretti a cercare vitto e alloggio in uno stabile di via Cairoli a ridosso della “curva de Pianesi” presso altre due signore rispettivamente madre e zia di un certo Ninì che, nel corso degli anni, sarebbe divenuto uno dei maggiori rappresentati dell’Arte pittorica del 900. Alludo a Sante Monachesi, già all’epoca un ragazzone dall’atteggiamento scapigliato, la risata contagiosa e l’appetito formidabile. Per dormire ci eravamo adattati presso un’altra famiglia. Quando mio padre ebbe la opportunità di trovare una occupazione fissa, la famiglia finalmente si riunì e potemmo fregiarci del titolo di “pistacoppi”. (continua)
24 dicembre 2017