Il prosciutto è stato, per molti anni, il protagonista sulla tavola delle nostre famiglie marchigiane che, grazie alla “Pista” (gli insaccati di maiale) riusciva a superare il periodo invernale avendo a disposizione un po’ di proteine, visto che gli animali rimasti erano solo riproduttori e non potevano essere sacrificati per la tavola.
C’è stagionatura e stagionatura
Anche oggi il prosciutto è spesso sui nostri piatti, sia crudo che cotto, ma c’è una differenza: quello dei nostri avi veniva affettato l’anno successivo rispetto al prosciutto che mangiamo oggi, il quale molto spesso è una zampa con cui il maiale un paio di mesi prima ancora camminava. Vale a dire che la stagionatura, forzata con potenti macchinari, può avvenire, volendo, in un tempi brevissimi. Ma partiamo dall’inizio. Il prosciutto, nella tradizione, era di due tipi: di serie A o di serie B.
La curiosità: il piatto forato
Il primo era quello fatto con le cosce posteriori del maiale, il secondo con le meno pregiate cosce anteriori e veniva detto prosciutto di spalla; in genere la carne della coscia anteriore era usata per farne salsicce ma in caso di necessità diveniva prosciutto. La coscia era conservata, disidratandola completamente, con il sale. La copertura di sale era più o meno lunga a seconda della stagione poi, una volta asciutto e opportunamente trattato, per farlo stagionare veniva appeso con una corda al soffitto di una stanza asciutta. Una curiosità: a metà della corda veniva inserito un piatto forato al centro, tenuto da un nodo che lo lasciava libero di oscillare perché se i topi fossero scesi per mangiare il prosciutto, arrivati al piatto, questo, dondolando, li faceva scivolare a terra.
La derivazione dialettale
Da dove viene il termine “prosciutto”? Sappiamo che i nostri nonni, parlando, usavano troncare le parole per cui, a esempio, maestro diventava maé, bidello bidè, pane, pà vino vì e allora anche le parole “proprio asciutto”, che avrebbero dovuto identificare il protagonista della nostra storia, nel parlare sono state accorciate in “prosciutto”.
Il prosciutto cotto? Un ripiego!
Giunti a questo punto è lecito domandare: “Ma… quello cotto?” Ebbene, in origine quello cotto era un ripiego e serviva, come si direbbe in dialetto “pe’ méttece ‘na pèzza!” (per riparare un danno, mettere un rattoppo). I prosciutti erano controllati mensilmente e se uno avesse dato l’idea che non si sarebbe mantenuto e la situazione non fosse ancora così grave, si metteva nella cappa del camino e si affumicava. In questo modo diventava mangiabile. Se la “malattia” fosse stata più grave, dopo cotto il pane, come la temperatura del forno fosse scesa, sarebbe stato infornato e cotto. Per moltissimi anni, quindi, il cotto è stato un prosciutto di seconda classe, fatto solo per salvare il salvabile. Poi l’industria e la pubblicità hanno fatto come con certe dive della televisione che, pur valendo poco, grazie a potenti impresari teatrali, a bustarelle, a raccomandazioni e al “diletto” di registi marpioni, sono diventate stelle conosciute. Oggi, grazie alla pubblicità, alla selezione delle carni (dicono loro…), il prosciutto cotto è più caro di quello crudo. A conclusione, però, voglio dire che un buon piatto di prosciutto, accompagnato da melone o altre squisitezze che lo completano, e “innaffiato” con un buon bicchiere di vino, è sempre una ottima pietanza da mangiare, serenamente, con diletto del gusto, della bocca e dello stomaco.
Cesare Angeletti
11 dicembre 2017