Si parla spesso in questo periodo della siccità e anche delle alluvioni che compromettono la raccolta dei prodotti. È vero. E le cause? Sono tante. E le colpe? Altrettante. Dipendenti dal mutamento del clima, le stagioni non rispettano più la ciclicità di una volta. Quando andavo a scuola s’insegnava che l’asse terrestre, non ricordo più in quanti anni, subiva un mutamento rotatorio. Le stagioni risentono di questo fenomeno? Può darsi. C’è poi il nostro sconsiderato modo di mancare rispetto al pianeta con emissioni inquinanti: è una concausa sicura. Si può senz’altro porre rimedio ma non è il rispetto di una singola persona a poterlo farlo ma quello di tutta l’umanità, con ogni singolo a fare la sua parte. Poi ci sono la pioggia, gli smottamenti e altre calamità naturali. Qui bisogna considerare le responsabilità. Le trascuratezze dello studio e la concretizzazione: creare scolmatori per convogliare le acque che tracimano dai fiumi in piena, scavare invasi per raccogliere le acque, realizzare muri o scarpate protettive per drenare e fermare il terreno che è spinto da monte. Queste e tante altre situazioni sono colpa dell’uomo e, spesso, delle autorità preposte a tale vigilanza. E ora parliamo della siccità. Tante concomitanze concorrono alla mancanza di acqua, anche quando questa cade in maniera copiosa e anziché fare del bene porta disagi enormi. E allora? Ricordo fin da quando ero piccolo e fino a una certa età, che nei campi arati i contadini tracciavano dei solchi, specie nei terreni in pendenza, per frenare le acque cadute in abbondanza in modo da evitare frane che avrebbero compromesso il raccolto trascinando via i semi o invadendo strade e paesi interi. I campi, sia in pianura che in collina erano pieni di alberi ai quali si attaccavano le viti di uva e questi alberi oltre a frenare la corsa della pioggia abbondante producevano ossigeno e l’uomo e l’atmosfera ne avevano i benefici. Poi gli agricoltori hanno iniziato a fare colture intensive servendosi di macchine agricole di grandi dimensioni e gli alberi hanno iniziato a dare fastidio per il movimento delle macchine stesse e allora… addio alberi! L’essenziale è avere quantità maggiore di prodotto, quindi di realizzo economico. Perché non si fanno leggi che obbligano i coltivatori a reimpiantare alberi distanziati in modo da permettere anche l’uso di grandi macchine? Sarebbe il modo di ristabilire un equilibrio. Cari Coltivatori, voi che riempite le piazze con manifestazioni contro tutto e contro tutti, l’avete mai fatto un “Mea culpa”? Poi ci sono i terreni in collina, abbandonati, senza nessuna cura con le acque che scendono rovinosamente in caso di pioggia abbondante, anche perché la pioggia caduta scivola con più facilità sull’erba non tagliata divenuta vitrea, correndo verso il fondovalle arrecano danni ben conosciuti. I proprietari dicono di non aver convenienza a coltivare quelle terre perché economicamente non rendono. In fatto di danaro immediato forse sì. Ma quanto costano i danni causati? Chi ne subisce le conseguenze? Rimedio? I proprietari di terreni lasciati incolti dovrebbero essere obbligati ad arare e drenare la terra con opportuni solchi. Siccome sia il Comune che la Provincia sono i primi a subire i danni, attraverso le frane che ostruiscono la viabilità, dovrebbero applicare una tassa per la mancata osservanza dell’obbligo, oltre al ripristino dello stato precedente a totale carico dei confinanti. Parlo così perché pago regolarmente le tasse, con una parte di queste devoluta per riparare i danni sulle strade e su altri luoghi disastrati, danni provocati dalla sconsideratezza, non vorrei dire menefreghismo anche se a volte si manifesta, di tanti che con arroganza nelle piazze gridano “al lupo, al lupo” poi mangiano l’agnello dando la colpa ad altri di averlo ucciso.
Ninì de Quinto
7 ottobre 2017