Peppina: al cimitero un saluto al marito defunto e poi via, in esilio

Nota della redazione: in prima pagina abbiamo messo la foto che documenta l’impatto ambientale della casa di legno di Peppina. Riuscite a vederla? Ma come… non vedete come impatta sull’ambiente!?

 

Questa mattina sono voluto andare a San Martino di Fiastra, soprattutto per rendermi conto del grave reato di abuso edilizio perpetuato da Peppina (e dai suoi familiari). Ho attraversato paesini e frazioni senza segni di vita. Anche le case sparse con le finestre divelte danno il senso di angoscioso abbandono e dell’inevitabile oblio: non cavalli e ovini al pascolo, non il gioioso rincorrersi di bambini spensierati. Pochi i ciclisti e rari gli amanti delle passeggiate in montagna; in loro non traspariva allegria, si percepiva una generale mestizia.

Dopo chilometri di stradine impervie sono arrivato alla frazione di San Martino.

Una lunga fila di auto parcheggiate sull’argine della strada fa presumere qualche cosa d’inconsueto. Nei pressi di un incrocio si vedono “gazzelle” e “pantere” e vari tutori dell’ordine in divisa, con l’arma di ordinanza nella fondina. Di politici, Commissari più o meno straordinari neanche l’ombra. Una stradina in mezzo al bosco, con macerie accatastate, porta alla piccola frazione inagibile. In cima alla salita a destra c’è (sbarrato da una transenna) l’ingresso all’abitato pericolante e con le macerie addossate alle pareti delle case vuote. A sinistra è ben visibile un solo container (quello assegnato a Peppina); non è dato sapere se per questa “costruzione” siano state attivate indagini sulla concessione, agibilità, staticità, impatto ambientale…

Credo che container e casa di legno (almeno durante le calamità) possano essere assimilabili; sono amovibili e lo spazio delle piattaforme può essere ripristinato dopo l’emergenza. La casetta in cui vuol vivere una centenaria è un gravissimo reato?

La casetta di legno è molto più modesta di quanto si è voluto far credere; è nascosta e parzialmente visibile sono da una stradina privata o vicinale sulla quale aspettano una settantina di persone, oltre a una decina di agenti in divisa e qualcuno in borgese.

Dalla ripida scala di accesso i familiari ringraziano quanti sono stati loro vicini, aspettano documenti ufficiali, sono pronti anche a demolire. Vogliono rispettare il provvedimento che impone lo sgombero; anche se per questo assurdo provvedimento non si sentono più orgogliosi di essere italiani.

Peppina, sorretta dalla figlia, scende lentamente le scale, non è più briosa, ha il viso stanco e segnato dalla vicenda che niente ha di umano, vuol sorridere a quanti la applaudono.

La notte scorsa non è riuscita a dormire e oggi deve sottoporsi a un esilio volontario lei che non ha mai fatto del male a nessuno e ora terremotata deve subire l’onta di sentirsi una spudorata palazzinara pescata in flagrante.

Eppure, salutata la casetta, trova parole confortanti per i presenti: augura a tutti tanto bene anche a quelli che le hanno fatto tanto male.

Peppina, a fatica, è salita nella macchina dei suoi familiari, si è fatta portare nel cimitero della frazione, dove ha salutato suo marito, ha abbandonato la sua montagna per recarsi in luoghi che lei non riconosce: vuole essere ligia a provvedimenti emanati “in nome del popolo italiano”.

Questo esilio volontario è peggio di una deportazione.

La piccola folla silenziosa, pacifica e commossa: “È una vigliaccata”, “è un’ingiustizia”, “questo è il principio della fine dei territori montani”,“non ricostruiranno niente”, “forse hanno sbagliato la marca della casetta”, “a questa povera vecchietta l’hanno condannata a morte”,  “non riesco a capire come riusciranno a dormire tutti quelli che hanno promosso e tollerato”, “queste cose in Friuli erano impensabili”, “hanno risolto tutti i problemi del terremoto”.

Testo e foto di Nazzareno Graziosi

1 ottobre 2017 

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