Quelle sciagurate “tre i”: internet – inglese – informatica

Provate a entrare oggi in uno dei tanti istituti scolastici italiani e avrete l’impressione di un ufficio anonimo, di un ente sul tipo dell’Inpdap o dell’Inail dove automi vestiti da professori incurvano la rachide davanti a schermi colorati, picchiettando sui tasti, muovendo un coso nero col filo e infilando meccanicamente piccoli parallelepipedi dentro minuscoli buchi.

 

Professori come funzionari delle Poste

Una rivoluzione burocratica, tecnologica, ha snaturato il mondo dell’istruzione, trasformato gli studenti in utenti e i professori in funzionari delle Poste. Svilita l’intellettualità nell’ossessione di impiegatizi bizantinismi, la scuola  si è sclerotizzata in una forma pirandelliana il cui codice linguistico è costituito da un pedagoghese astruso che toglierebbe la voglia di vivere perfino al ballerino della Tim.

 

Le “tre i”

Questa deplorevole involuzione affonda le radici negli anni ‘90, dopo che sulla scia delle sciagurate “tre i” (internet, inglese, informatica) i ministri Berlinguer e De Mauro infersero colpi micidiali a tutto l’assetto del sapere. Sotto questi due sinistri pontificati nacque la cosiddetta scuola delle competenze. Ricordo ancora l’esimio linguista De Mauro tuonare contro un modello di istruzione che non si curava di insegnare a un alunno di redigere un verbale.

 

Svilimento dei contenuti

Da allora si svilirono gradualmente i contenuti, per valorizzare le forme, i linguaggi della comunicazione, la cultura applicata, spendibile in contesti pratici ed economici. Il risultato fu la semplificazione delle discipline, la perdita della dimensione esistenziale e religiosa, il soffocamento delle domande decisive dell’essere umano che gli alunni cominciano a porsi, le cui risposte sono nel grande libro della storia e della natura, che l’insegnante-intellettuale dovrebbe aprire davanti ai loro occhi meravigliati.

 

Analisi del testo, quale che esso sia

Per quel che riguarda la letteratura, l’essenziale di questi tempi è fare l’analisi  del  testo, dove non  ha più importanza se il  brano è di Federico Moccia o di Marcel Proust e dove la bellezza della polisemia viene sostituita da domandine a risposta secca, mentre lo specifico della poesia è la sua inesauribile carica di semanticità. L’importanza data alle tecniche comunicative ed espressive intercetta poi una tipica tendenza della gioventù di oggi al narcisismo e a concepire la vita come sensazione ed emozione estetizzante: ecco fiorire allora nelle scuole ballerini, musicisti, attori rapiti in un tourbillon esibizionista che esalta il genitore frustrato, il quale, peraltro, monta su tutte le furie se il figlio si è riportato due materie.

 

L’epoca della facilità

Già perché in questa liquidità pedagogica il rigore e la serietà hanno ceduto il posto alla facilità. Del resto gli insegnanti sono considerati dei facilitatori. Bocciare oggi un alunno incapace e svogliato è come  scalare le vette del Karakorum con gli infradito: ti ritrovi dopo due giorni i parenti ringhianti come lo Yeti e l’azzeccagarbugli prezzolato che minaccia un ricorso al Tar.

 

La… buona scuola

Ma la buona scuola va dritta per la sua strada: basta con Leopardi, Kant, Lucrezio. Si avviino piuttosto percorsi di scuola-lavoro dove per tre settimane lo studente di liceo si fortifica le sinapsi facendo il pasticcere o portando la pizza a tavola. Si introducano i moduli Clill per poter insegnare le discipline in inglese, semplificando, schematizzando, cedendo alla lingua dei padroni del mondo.

 

Professori? divisi in tre categorie

E i professori?  Ce ne sono di tre categorie. Quelli integrati e ebbri di questo pasticcio barocco dove tecnocrazia, superficialità e narcisismo si attorcigliano in forme mostruose. Sono galli e gallette dall’aspetto tonico e sicuro, adulatori dei dirigenti e da essi riveriti. Poi c’è il marais: professori preparati ma non allenati a contrastare i diktat del potere. Se viene imposto loro di mangiare il guano della piazza, essi mugugnano un po’ ma poi leccano i marciapiedi arrivando in certi casi a dire: ma sì, via, non è così male. Poi c’è un terzo gruppo, più sparuto: quello dei professori che non hanno ceduto alle slide ma che coltivano l’arte della parola così come l’hanno appresa da Cicerone, Dante, Petrarca, Galilei, Leopardi. Coltivano i loro sogni umanistici o scientifici nello studiolo. Si aggiornano sempre, si appassionano e appassionano. Amano la solitudine ma sono ugualmente aperti al dialogo con persone vere. Ben presto, però, come San Cassiano verranno malmenati e picchiati a colpi di tablet sulla testa e infilzati a colpi di pennette sui logori lombi.                                       

Tito Lenzi

29 agosto 2017

 

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