Antonio in quella tersa mattina di fine ottobre era con le sue pecore, sull’altopiano. Forse era anche domenica, forse si, ma gli animali non conoscono i giorni della settimana e così già da tempo avevano perso di importanza anche per lui; eh, si, doveva farsi comandare dalle sue pecore, se voleva andare avanti, si ritrovava spesso a pensare. A consolarlo un po’, almeno, quell’anno l’estate dei morti sembrava essere arrivata persino in anticipo; Antonio ne stava apprezzando l’insolito tepore, mentre in piedi, appoggiando sul suo bastone il peso degli anni, lasciava che i suoi occhi si perdessero nell’orizzonte lontanissimo, feriti dal sole che saliva sopra il Vettore, da est. In quella quiete che sembrava così perfetta e definitiva, il boato arrivò all’improvviso, come una bomba che fosse scoppiata a breve distanza; gli impetuosi, violenti sussulti della terra, quasi i tratti inconsulti di una enorme bestia che tira le cuoia, rischiarono di fargli perdere l’equilibrio. Istintivamente si accucciò tra l’erba, in posizione fetale, a ripararsi non sapeva esattamente da chi, non sapeva da cosa. Poi realizzò, mentre ancora le zolle si sollevavano, gli alberi ondeggiavano, i campi si scuotevano, in un tempo che gli parve interminabile. “Sono sempre appartenuto a te – pensò – se deve essere, inghiottimi, così ti apparterrò ancora per sempre!” Nell’attimo in cui la potenza della terra pareva scemare, sentì i lamenti degli animali impazziti, lo sgretolarsi delle rocce dai fianchi della montagna, il sibilo sinistro di un vento irreale. E poi, ancora un lungo sussulto, finale, definitivo. Faticò a mettersi almeno seduto, una volta che tutto parve essersi calmato; ma si trattava soltanto di una calma apparente: i tremori della terra continuavano e si confondevano con i suoi. Sembrava che tutto quello sprigionarsi di energia avesse risucchiato la sua: si sentiva come svuotato, per il momento non riusciva neanche ad alzarsi in piedi. Cercò di riguadagnare almeno un respiro regolare, piccoli gesti ordinati. Gli occhi, indipendentemente dalla sua volontà, gli si erano riempiti di lacrime. Li asciugò col lacero polsino del giaccone marrone e pensò. Pensò alle storie che i vecchi gli avevano raccontato quando era bambino, quei racconti così fantastici, che volevano solo insegnargli, forse, quanto la montagna potesse essere dura, imprevedibile, pericolosa. Le Sibille, le fate, gli gnomi, lui non li aveva mai incontrati, sebbene – fino a una certa età – li avesse anche cercati, al riparo dallo sguardo dei grandi. Ma il gigante, quel gigante che dorme da secoli nel suo letto di pietra sotto la montagna, anche se non lo aveva mai incontrato, aveva la certezza che fosse veramente lì, da qualche parte. Durante il corso della sua ormai lunga vita, tante volte quell’essere possente si era rivelato, aveva manifestato la sua forza, la sua rabbia, quasi. Forse per cercare di esorcizzare la paura, Antonio lo aveva sempre immaginato come un enorme orco barbuto, ma tutto sommato indolente, che talvolta sbuffa, ogni tanto si rigira… e che soltanto quando si sveglia, riesce a terrorizzare anche gli indomiti uomini della montagna! Una montagna che regala meravigliosi spettacoli già solo attraverso gli umili fiori dei suoi campi e che quegli uomini, testardamente, si ostinano a non voler abbandonare, ma che anzi tengono viva, con le loro greggi, le attività artigiane, i loro ridotti commerci. Perfino il turismo era entrato in punta di piedi, non era mai stato invadente, ma in gran parte rispettoso e appassionato a quella natura e ai tesori d’arte che quel territorio contiene. Perché allora, gigante, ti rivolti contro di noi? Contro questo popolo di confine, tra tante regioni, tra roccia e cielo, tra antico e moderno, perché ti accanisci così? Cosa ti ha fatto di male questa gente tenace, abituata a vivere senza clamori, a stringere i denti, a resistere in silenzio, tra un’Ave o una bestemmia appena biascicate? Dormi, dunque, gigante! Dormi! E vedrai che ce la farò a rialzarmi, ce la faremo a rialzarci, anche questa volta!
Mauro Valentini