Si è tenuta a Villa Colloredo di Recanati una splendida mostra del pittore ceramista Piero Ceccaroni, a 20 anni dalla sua scomparsa. La vicenda artistica di Piero Ceccaroni inizia quando, giovanissimo, sperimenta le suggestioni dell’arte ceramica sotto la guida dello zio Rodolfo – riconosciuto “maestro” in campo nazionale – che nelle cantine del palazzo di famiglia a Recanati aveva costruito un forno apposito, e poi un altro ancora, al fine di dar sfogo alla sua creatività di pittore-poeta, consapevole del fatto che con la ceramica si può essere pittori, e si può essere anche poeti. Fu questa la prima grande lezione che lo zio impartì ai propri nipoti, tra cui Maria Grazia e Piero, futuri artisti entrambi. Piero, facile preda di immaginifici incanti per sensibilità e indole, non poteva sfuggire all’arcano di certe fascinose alchimie sperimentate da quel “maestro” a lui così vicino, se non per età per fantasie e sentimenti: “Erano operazioni complicate e laboriose quelle che lo zio svolgeva senza uscire dall’ambiente surriscaldato dal forno per non prendere freddo e rischiare di ammalarsi; sua moglie lo assisteva in questa sua passione, portandogli il pranzo su un cestino, alla maniera con cui venivano rifocillati i contadini nel lavoro dei campi, evitando che la cottura non subisse rallentamenti o interruzioni, con danno alle opere”. Al fascino delle cose prodotte si aggiungeva così quello delle tenerezze domestiche. Miscuglio affascinante in un luogo magico, in cui i ragazzi entravano con stupore e grande divertimento, catturati dal manifestarsi delle scoperte – che elettrizzavano anche lo zio quando capitavano – e dalla varietà di emozioni che ne scaturivano. Rodolfo se ne compiaceva, invitava i nipoti a provare con pezzetti di argilla appena modellata, da cuocere in proprio, rendendoli partecipi di uno speciale orgoglio: quello del fare originale e dell’assoluta indipendenza creativa. L’esordio di Piero, come artista, si colloca appunto nel momento in cui gli venne proposta un’idea da svolgere in pittura: evento cruciale che avrà i suoi sviluppi dopo decenni, quando egli, convinto ormai della propria vocazione artistica, decise di trarre profitto da quella tecnica e da quella indipendenza che suo zio gli aveva trasmesso come primo comandamento. Di suo il giovane si rendeva ormai conto che l’arte contemporanea era avviata su una strada di crescente soggettività e individualismo, traendo da queste sue qualità la più invitante incondizionata indipendenza: luogo di originalità non solo in termini di esibizione, ma di indagine e scoperta, ove l’aspetto psicologico, introspettivo, fosse essenziale e determinante nell’esercizio del fare e dell’immaginare. Rivedendo oggi i lavori di Piero è come riscoprire in ogni fotogramma una particolare sensazione, occasionalmente catturata, unica, irrepetibile. Il pericolo della ripetizione vi appare accortamente rifuggito, non c’è ombra di pro-grammazione nel procedere, si svolgono così, per effetto di un dettato quasi automatico, alla maniera dei surrealisti. Emergono in essi reminiscenze letterarie, un favoleggiare complesso che si snoda su registri e umori alterni, emergenti da una percezione profonda di ricordi e fantasiose sensazioni. Un amore centellinato e goduto al massimo dell’emozione è rivolto al paesaggio, a quel paesaggio marchigiano di cui la poesia leopardiana è riflesso e benedizione.
28 novembre 2016