Il 12 ottobre 1604, a mezz’ora di notte, tempo dell’Ave Maria, per la città di Ascoli Piceno si sparsero i rintocchi funebri della campana dei Cappuccini. Era il discreto annuncio che qualcuno, nel convento, aveva cessato il suo pellegrinaggio terreno. Nessuno, eccetto i confratelli, sapeva chi fosse. Ma accadde un prodigio: schiere di fanciulli, lasciato il tepore del letto, muniti di torce accese invasero le rue e le piazze urlando: “E’ morto il santo alli cappuccini, è morto Serafino!” La notizia venne affidata alle bocche degli innocenti, suggello divino all’opera terrena di un uomo semplice, umile, buono e caritatevole, un vero araldo di San Francesco. A quel grido di dolore si levò un vento violento che sparse la notizia per la città. Accorsero popolane, nobildonne e, alla spicciolata, sparuti gruppi di uomini increduli alla notizia. Il buio fu ricamato da mille fiaccole quasi il firmamento si fosse trasferito in terra per partecipare al lutto. La gente chiedeva a gran voce di vedere le spoglie del santo e il guardiano, padre Bonaventura da Fermo, terrorizzato dai possibili sviluppi nascose la salma perché non se ne facesse scempio per brama di sante reliquie. Chi era San Serafino? Ebbe umili origini a Montegranaro nel 1540 da Girolamo Piampiani, muratore, e da Teodora Giannuzzi, casalinga. Fu chiamato Felice, ebbe un fratello maggiore di nome Silenzio e due sorelle, Maria e Camilla. Da bambino, pascolando pecore, imparò ad amare la natura e il contatto con l’ambiente agreste, il silenzio dei pascoli e la solitudine formarono una personalità contemplativa e una fede nel Creatore intensa, spontanea e genuina. Da ciò scaturì un bisogno intimo di rifugiarsi nella preghiera e nella venerazione della Croce che sempre incideva, con un coltellino, sui tronchi degli alberi. A 12 anni fu strappato a questo ambiente per la morte del padre e il bisogno del fratello di avere un manovale a costo zero. Silenzio era dispotico e violento e Felice sperimentava spesso manesche maniere. Fu allora che nel suo cuore germogliò il desiderio di rifugiarsi in convento e galeotti furono un libro, intitolato “I Novissimi” di Dionigi il Certosino, e una fanciulla, Ludovica Mannucci di Loro Piceno, nella cui casa i due fratelli costruivano una “colombara”. Ludovica sedeva sull’uscio a leggere il libro a quel giovane manovale che vibrava di fede ardente e genuina. Ella, intelligente e perspicace, aveva notato che Felice, nelle ore di riposo, si chiudeva nella preghiera e nel digiuno. Nacque tra loro una fraterna amicizia e, alla sua confessione di voler entrare in convento, lei gli consigliò i cappuccini. Di nascosto dal fratello si recò nel convento di Tolentino dove fu accolto come novizio dal Provinciale padre Mario da Mercato Saraceno, nel 1558, all’età di 18 anni, e scelse il nome di fra Serafino da Montegranaro. Come illetterato non ebbe accesso al sacerdozio e divenne frate laico. Essendo poi incapace di rendersi utile alla comunità perché inidoneo ad attività pratiche fu sballottato in tutte le Marche: esasperati dalla sua inettitudine i guardiani se lo toglievano di torno. Ma San Serafino si distinse ben presto per la eroicità delle sue virtù e per la capacità di intercedere presso il Signore a favore di malati e bisognosi. Operò moltissimi miracoli, la sua fama si diffuse anche fuori dalle Marche e la venerazione per il fraticello fu tanta e tale da farlo rientrare spesso in convento con “mini” tonaca e mantello, tagliuzzati dai fedeli per farne reliquie. Il fatto indispettiva i guardiani costretti, ogni volta, a rinnovargli gli abiti. Ed ora a Macerata. Qui risiedeva il Cardinale Ottavio Bandini, sofferente per la frattura di una gamba che, putrefatta, andava in cancrena. Transitando fra Serafino a Potenza Picena venne invitato al suo capezzale, qui si inginocchiò con umiltà, pregò intensamente e, infine, toccò la gamba malata con il crocefisso di ottone dal quale mai si separava. Dalla gamba uscirono umori purulenti e il cardinale guarì. Il prelato, per gratitudine, offrì ricompense ma Serafino disse: “Se avete un po’ di povertà da darmi, l’accetterò volentieri perché questa è il mio tesoro, di cui si provvedono i miei frati.”
Matteo Ricucci
23 settembre 2016