Re Peppino, il palazzo e l’anello col giglio

In questo periodo nel quale si stanno risvegliando indagini sul territorio alla ricerca di un perduto e lontano passato, sono casualmente capitato, per aver sbagliato strada, in località Le Selve di Montecosaro, dove scorre il rivo Pontigliano. È immediatamente scattato, alla vista della basilica di Santa Maria a piè di Chienti (che da qui dista sette, ottocento metri), il collegamento a un paio di dcumenti che riguardano entrambi il nostro Peppino il breve. No, non sono irriguardoso, il grande personaggio storico conosciuto come Pipino, in uno di questi documenti è ripetutamente indicato come Pepinus, diminutivo nostrano di Giuseppe, tanto quanto il desueto Pippì che nella scrittura latina era Pippin. Il documento principe è il più volte da me citato diploma di Castrum Verdinius del quale ho già scritto sia su queste pagine sia sui miei saggi (1). Lo riprendo perché è sempre più ricco di credibilità, man mano che procedo con le ricerche. Del recinto fortificato dell’insediamento altomedioevale, a poco più di un migliaio di metri a nord dell’abitato attuale di Casette Verdini, è rimasta la “motta” ovvero l’innalzamento in parte artificiale del terreno che si distingue in modo netto per essere un tronco di cono di circa novanta metri di diametro, rispetto alle ondulazioni naturali circostanti; al disotto di questo rilevato c’è un laghetto sorgivo (riferibile al “rivolus sorgivus” mal traslitterato sulla collazione del diploma come rivolus sorclnii), alcuni abitanti della zona mi dissero che poco sopra il laghetto qualche anno addietro il solito aratro mise in luce un tratto di conduttura voltata in laterizio). Questo diploma ci dice altre cose, che solo nella valle del Chienti possono coesistere colla struttura del diploma stesso: le terre atto della donazione sono entro le proprietà personali del monarca e la cartula viene firmata nel palazzo di Pipino (nel testo originale rogato più volte Pepinus) sito ad Aquis Gram (un refuso di Aquis Grani). Da Casette Verdini a Montecosaro – Le Selve ci sono meno di 25 km, quindi è più che plausibile che il lascito sia all’interno delle proprietà personali del re (se Aquisgrana fosse invece stata ad Aachen – Germania e Castrum Verdinius a Berniquaut – Francia, distanti fra loro 1250 km su percorsi attuali, il nostro Peppino sarebbe stato personalmente proprietario almeno di mezza Europa, ma siamo ai prodromi della società feudale e questa ipotesi non può esistere).  Presa per buona la localizzazione di Aquis Grani (tutta la piana da Corridonia a Montecosaro e oltre), diventa maggiormente credibile anche il fatto che proprio in quel sito re Peppino avesse il suo palazzo, cioè quello “in Francia” e nel quale il 6 gennaio 753 riceve la visita di papa Stefano, proveniente da Roma insieme col fratello del monarca, monaco preso su al passaggio a Soratte (2).

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L’incontro avviene a “ponticone” o “ponte ugone” ma entrambi questi micro toponimi sono evidentemente mal trascritti o mal espressi nella memoria orale (se no non sarebbero due). Il rivo Pontigliano che assona meglio di altri toponimi locali e che non è ancora del tutto scomparso, passa invece molto vicino a una costruzione che pare sia stata una villa barocca edificata su una preesistente costruzione forse romana. C’è né abbastanza per collegare a questo sito il cippo marmoreo del console romano Pontilio (che fa bella mostra di sé sul lato sinistro dello spiazzo di fronte alla facciata di San Claudio), per collegare la villa del latifondista col sito de Le selve e al rivo “pontigliano” senza dimenticare l’abitudine altomedievale di costruire su fondazioni altrui, giusto come fece il Carlone per la sua Basilica chiamata Cappella che è poco distante (3). Il testo della collazione notarile del 1391 recita anche una frase importante: il notaio certifica che l’impronta del sigillo dell’anello di Pipino è la stessa dell’attuale sigillo della corte di Francia, che a quella data era, come è oggi conosciuto e cioè il “giglio di Francia”. La maggior parte degli storici  vorrebbe  che  questo simbolo compaia solo nel XIII secolo, mentre il Bloch lo farebbe risalire ai Capetingi. Questo piccolo dettaglio, peraltro inopinabile, rende giustizia alle centinaia di “gigli” sparpagliati sui portali delle chiese e sulle lapidi marchigiane, simboli che da forme arcaiche alto medievali evolvono fino alle rappresentazioni con forme più conosciute scolpite dai templari, a testimoniare anche con questo una origine nostrana e antichissima dei Franchi Salici.

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Note

(1) Si tratta di un diploma di donazione ai monaci Benedettini di un terreno per costruire un monastero presso Castrum Verdinius e della assegnazione perpetua delle relative pertinenze e privilegi, siglato da Pipino il breve, collazionato a Tolosa nel 1391 e riportato nella storia di Soreze .“Notice historique sur Soreze et ses environs, suivie d’un voyage au dedans et au dehors de la montagne de Causse”.di J.A Clos 1882. Imprimerie de B. Cadet Tolouse . Cfr anche M.Arduino su La Rucola n° 192 mag. 2014.

(2) Annales Laurissienses Maiores anno 753 “Eodemque anno Stepahanus papam venit in Franciam…..”

(3) Medardo Arduino “Basilicam quam Capellam vocant” ISBN 97888907470 7 6. Ancona 2013.

 

Foto 1 – protogiglio a Pievevecchia;

foto 2 – giglio a San Ginesio;

foto 3 – giglio di Francia.

 

13 luglio 2016

 

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