Capisci subito che non sarà uno spettacolo “facile”, fin da quel grido che ti colpisce all’apertura del sipario: “Aiutatemi, vi prego, a regalarvi la mia morte”, fin dall’apparire di quel corpo magro, vibrante, etereo e al tempo stesso potente in quel leggero vestito bianco e cappottino rosso. Un grido che rapisce, cattura e ci porta a sederci con Veronika nelle poltrone di legno di un vecchio cinema, a vivere con lei e dentro di lei il dramma di una vita costellata di incubi, illusioni, respiri, lacrime, amori. E di droga. Che prepotente entra in scena sotto forma di bellissimi scimmioni bianchi, che stanno lì abbarbicati alle sedie, attorno a Veronika e dentro la sua anima. La musica sottolinea con grande efficacia il tempo mentale di Veronika, così come le immagini che scivolano sul fondo, in un gioco di sagome e ombre che danno vita al volto di Fassbinder e di Veronika stessa. Non è però un testo solo sulla dipendenza dalla droga, è il racconto della dipendenza di questa donna nei confronti della dottoressa Katz, del suo rapporto morboso con Robert; è il racconto dell’eterno conflitto tra realtà e desiderio, tra ciò che è stato e ciò che è. La recitazione a volte asciutta, a volte martellante come il racconto stesso, non fa che dare forza ai personaggi che di volta in volta incrociano la nevrastenica Veronika, nevrastenica come solo le dive possono essere. Bravissimi gli attori, Valentina Acca, Caterina Carpio Candida Nieri, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Maurizio Rippa e bravissima Monica Piseddu che nel finale ci porta con altrettanta maestria, dopo la morte di Veronika, in un luminoso giardino cechoviano. Si può amarlo, detestarlo, esserne infastiditi, ma di certo lo spettacolo è un terremoto per l’anima.