Sono, da qualche mese, un lettore de La rucola: rivista impagabile, perché è la rarità a farne il valore e quindi il prezzo. E la rarità di questa pubblicazione sta soprattutto nel coraggio che spesso vi si dimostra nell’affrontare, a livello non “sorbonaro” ma popolare, argomenti con tesi controcorrente; e quindi nel dare ospitalità ad articoli che altrimenti la gente mai leggerebbe. Spinto da questo motivo, scrivo per segnalare e sottoporre all’attenzione e al giudizio dei lettori un lavoro dal titolo “Controstoria – La Resistenza partigiana san-severinate secondo il popolo”. Si tratta di un libriccino che a molti farà masticare un po’ di agrodolce. Perché, “senza menare il can per l’aia, a chiare note e con un notevole atto di coraggio, dà inizio a una necessaria e doverosa ‘revisione’ storica della Resistenza paesana”.
L’autore dice di essere stato costretto a scrivere per difendere la sua reputazione (cui tiene per piccola che sia), essendo stato accusato di “diffamare il movimento partigiano”. La tesi di fondo del libretto è che il paese fu liberato “dal suo totalitarismo fascista non dalla Resistenza partigiana, ma dalla guerra vinta dagli alleati”. Nel sanseverinate, infatti, la resistenza non fu, come anche altrove, né guerra né guerriglia. Perché dove non ci sono disciplina e soldati non c’è esercito; dove non ci sono almeno due eserciti non c’è vera battaglia; e dove non c’è battaglia non c’è né guerra né guerriglia. Anche la Resistenza partigiana locale, in effetti, altro non fu che un dare inizio alla rivoluzione; che, a chi già la faceva a brutto muso e a mano armata, fu poi impedita dalle forze democratiche cattoliche e liberali; e veniva fatta non da soldati, ma da disertori, renitenti alla leva e da sovversivi organizzati da uno fuor di paese:un istriano che combatteva per liberarci da due dittatori al solo scopo, però, di imporci un tiranno non da meno e che, per aver ridotto la grande Russia al paese della barbarie fino al cannibalismo, già era diventato e sarà poi detto da tutti“la vergogna del nostro secolo”. Il risultato fu che la Resistenza partigiana locale divenne, come altrove, causa, purtroppo deprecabile e inutile, di tanto sangue; e rappresentò un rischio per l’indipendenza, la libertà e la democrazia di tutti noi. Ma l’affermazione più dirompente del libro è che la storia del partigiano Salvatore Valerio – medaglia d’oro al valor militare – pare proprio che sia una storia, a dir poco, fasulla: il capitano Valerio morì in occasione della “battaglia” (ma fu solo un rastrellamento) di Valdiola perché fu vittima non di un suo eroico edimpari combattimento contro reparti nazifascisti come si racconta, ma per motivi inconfessabili (direttive di Longo) e modi subito occultati e perciò tuttora sconosciuti. La tesi specifica del libro è, quindi, che “sulla morte del capitano Valerio la verità era, come spesso accade, appannaggio di pochi, anzi, forse, di uno solo”.
Stante, insomma, la contraddittorietà delle testimonianze, è probabile che il Valerio sia stato non un “eroe”, ma una delle vittime locali della resistenza partigiana. Perché “in una ‘banda’, più che altrove, può accadere di tutto, rivalità comprese; e dubitare di chi mente è lecito”. Per aver saputo da fonte sicura e per aver ricordato e scritto del capitano Valerio che “furono trovati in lui solo un foro nelle tempie e attorno soltanto un bossolo”, questa frase è stata ritenuta “un’assertiva inventata di sana pianta al solo fine di diffamare il nome del valoroso capitano del movimento partigiano”. In conclusione: l’autore dice quello che sa e che per lui è vero. Inoltre ritiene che “al capitano Salvatore Valerio va riconfermata la medaglia d’oro, ma, forse, con una ben diversa motivazione relativa alla causa di morte”. È ovvio, perciò, che, per sapere se e quanto l’autore ha ragione, occorre leggerne il libro.
P. Bétafonet
Il volumetto consta di 113 pagine “infuocate”, corredate da numerose fotografie dei luoghi e dei personaggi citati nonché di mappe e di articoli di giornali. Insomma è una voce “fuori dal coro”.