I sette re di Roma li imparai a memoria in terza elementare e ancora oggi me ne scappa uno e ci devo ripensare, ma la leggenda è intatta. È la storia critica della formazione dell’Urbe che, oggi che vivo in full immersion nella storia socioeconomica e urbanistica dell’Italia Celto Etrusco Picena, mi riempie di dubbi soprattutto se vista dall’angolazione del negazionismo per la ragion di stato. Che Roma non sia stata fondata con un atto specifico come le polis magno greche è acclarato e non mi ci soffermo, ma sono i “fondatori” sabini che non mi convincono, tanto quanto la folgorante crescita e differenziazione dell’Urbe dai villaggi dei territori circonvicini dalle cui genti dovrebbe essere stata popolata. Per avviare una veloce comparazione, vado nelle terre di Amerigo: sull’isola di Manhattan i 15000 nativi Lenape vivevano da secoli di sola attività primaria. Gli olandesi e poi gli Inglesi ne fecero un centro nodale per i commerci e zoccolo economico per il controllo politico della nascente federazione. Siamo nell’evo moderno e per avviare la “grande mela” è bastato poco più di mezzo secolo, l’immissione di elementi culturali e tecnologici nuovi nonché ingenti risorse economiche. Nell’evo antico per fare decollare Roma ci vollero forse un paio di secoli in più, ma il “motore” che fece nascere e progredire l’Urbe in modo decisamente celere per i tempi, non può essere l’evoluzione spontanea delle culture locali, popolazioni essenzialmente dedite alla pastorizia (vedi Tito Tazio) quindi non in grado, senza “sollecitazioni” e contributi esterni, di evolvere così rapidamente. Roma è giusto al confine fra l’area dell’Italia Celto Etrusco Picena a settentrione e quella dell’Italia Italiota e Magno Greca a mezzogiorno. La nascita “spontanea” di una potenza mercantile sul litorale tirrenico già costellato da affermati centri dell’una e dell’altra koinè, non sarebbe passata inosservata e certamente sarebbe stata ostacolata. Le leggende è vero hanno sempre un fondamento di verità, specie se le si considera come tali, calate nella cultura che le ha prodotte e mantenute.
Vi propongo pertanto, visto che è Natale, un diverso natale di Roma. C’è sempre lo zampino di una calamità naturale. Siamo nell’ottavo secolo a.C. e gli affari nella ricchissima regione oggi Le Marche, vanno a gonfie vele, sia per i produttori di beni di consumo che per gli armatori commercianti (vedi tomba della “principessa” di Sirolo), ma il solito cataclisma guastafeste produce un brusco arresto della maggior parte delle attività, la ricostruzione in loco avverrà, ma lentamente a causa delle epidemie e del logoramento del tessuto sociale. Un gruppo di armatori e di produttori di manufatti di alta tecnologia, radunano i loro migliori collaboratori superstiti e, valicato l’Appennino, cercano un sito idoneo alla ripresa delle loro attività che non sia già completamente presidiato dal potere economico mercantile loro concorrente. La sola zona dove non hanno basi ne gli Etruschi ne i Magnogreci è proprio la foce del Tevere. Non è un caso che Numa Pompilio (prima il cognome poi il nome, del paese o della gens di Numá) il secondo leggendario re di Roma, non sia un guerriero ma un legislatore e un pianificatore che trasferisce le leggi e le abitudini di un’area adriatica, culturalmente e tecnologicamente più avanzata sui sette colli. Il re però si porta dietro il deterrente dei temibilissimi sacerdoti guerrieri Salii, per precauzione. Concludendo, solo un sostanziale contributo esterno può aver consentito lo sviluppo così rapido di una realtà vincente in un’area di bassa tecnologia, presa in mezzo a realtà molto più agguerrite. Dopo l’organizzazione e le leggi, le mura Serviane per la sicurezza della comunità e poi la mossa vincente di Ancó Marzio (Ndr: nome completo Numa Anco Marzio…) che fa costruire a Ostia il più grande porto mercantile di trans shipment dell’intero Tirreno e il resto è quasi storia.
Ps: l’accentazione finale dei cognomi non è un refuso.
Medardo Arduino
9 febbraio 2016