Tratto da Macerata tra storia e storie
di Fernando Pallocchini
Raccontiamo, la storia di una delle piazze maceratesi: piazza Mercato, oggi piazza Mazzini. Tutto ebbe inizio nel 1138, quando il “Castrum Maceratae” (che si ergeva in cima alla collina) e il “Podium Sancti Juliani” (che si adagiava sullo scoscendimento a est) decisero di unirsi. Il “polo” amministrativo fu del “Castrum”, quello religioso del “Podium” e un terzo “polo”, quello commerciale, venne identificato a sud, ai piedi della collina, in una spianata riparata dal freddo vento del nord e illuminata dal sole di mezzogiorno. Uno spazio incolto, collegato con la strada (pessima) che si snodava verso la dominante Fermo, che ben presto si riempì del vociare di venditori. Un successo, tanto che nel 1363 (ci vollero circa 200 anni ma, allora, il tempo scorreva più lento), per disciplinare l’ingresso degli spiazzini e per garantire l’ordine pubblico, il Comune edificò la “Casa del Podestà” che oggi, inglobata nelle costruzioni, fa da angolo tra la piazza e l’inizio di Piaggia della Torre.
Qui si insediarono i gabellieri per riscuotere dazi e plateatico. Tra il 1367 e il 1370 la parte nord della piazza venne delimitata da una serie di fortificazioni poste a difesa del “Castrum”, che nel frattempo era cresciuto e all’altezza dell’odierno Vicolo Cassini fu edificata la prima “Porta Mercato”. Agli inizi del ‘400 la piazza assunse, circa, l’attuale connotazione urbanistica e in seguito, negli anni a cavallo tra il 1440 ed il 1445, mastro Bevilacqua da San Severino, su ordine dei governanti sforzeschi, costruì le mura che ancor oggi osserviamo e che cinsero l’abitato escludendo la campagna di sud. La porta d’ingresso, nel 1459, fu spostata dov’è adesso e, nel 1522, venne difesa da un bel fortilizio, oggi distrutto, che occupava l’area dell’odierna piazza Nazario Sauro. Piazza Mercato subì un radicale restauro terminato nel 1796 per opera del conte Camillo Compagnoni-Marefoschi e l’accesso fu semplificato demolendo, nel 1806, il fortino che difendeva la porta d’ingresso. Successivamente (1821-23) fu aperta l’ampia “Porta Mercato”.
Nel 1882 il nome cambiò in piazza Mazzini, come contrapposizione a via Garibaldi e corso Cavour. Altro cambiamento lo ebbe nel 1931 con “Piazza Littorio”, quando venne anche asfaltata. Il resto è storia recente, con il ripristino del nome “Piazza Mazzini” e il rifacimento della pavimentazione con piantumazione di alberelli a corona. Uscendo da Porta Mercato a destra, tra la chiesa e la Porta, troviamo il blocco, quasi decò, della “casa di propria abitazione e di affitto con botteghe e forno venale” che i catasti ottocenteschi assegnano a Giacomo Machelli-Pesaresi, un commerciante “totale” nel senso che tratta dalle verghe di ferro ai legnami, dallo zucchero alla cioccolata, gestendo anche il “forno del pan venale”. Questo personaggio appartenne alla severissima Confraternita del Santo Sepolcro e, nello stesso tempo, fu affiliato al ghibellino Circolo Popolare.
Fu in questa seconda veste che, nel 1849, in compagnia di altri cercò di assassinare un Pennacchietti che abitava nelle vicinanze, ritenuto guelfissimo. Nel palazzo seguente una lapide “floreale”, opera del maceratese Giuseppe De Angelis, ricorda che in quella casa, acquistata nel 1704 da Giacomo Filippo Ciccarelli, bargello del Governatore, nacquero i fratelli Ciccarelli. Questi furono definiti i “Cairoli maceratesi”. Ercole combattè a Mentana; Sigismondo, anche lui garibaldino, fu a Roma con i Cairoli e strinse amicizia con il piccolo Prezzolini; Cesare, il minore, morì invece a Bezzecca. La costruzione successiva, in stile liberty per un restyling effettuato negli anni ’30, ricorda il professor Giuseppe Strocchi alle cui continue proteste per lo sterquilinio perpetrato lungo le mura sottostanti si dovette la fondazione, avvenuta nel 1868, del “bagno pubblico” ancor oggi funzionante. Poco oltre Casa Filati, fino ai primi del ‘900 isolata da tre viuzze, possiamo osservare, ora inclusa in cortiletti, la chiesa di Santa Maria del Riposo. Questa, scrivevano nel 1537, sorgeva “ne la piazza del mercato dove se decapitano gli uomini per giustizia” e per questa caratteristica ebbe anche l’appellativo di “Consolatrice”.
La costruzione è stata rimaneggiata più volte ed ebbe giurisdizione parrocchiale sul quartiere de “le Casette”. Fu completamente rifatta, su disegno del maceratese Biagio Belli, nel 1848 e conservò un bel carattere neoclassico giocando sul contrasto pieni-vuoti. Questo almeno fino al restauro del 1937-’50 quando internamente fecero la loro comparsa fortissimi colori ed esternamente il freddo cemento della facciata e le statue affette da “trisma tetanico”. Continuando troviamo la “Casa Filati”: una massiccia costruzione, dalla facciata rifatta nel 1870 e gratificata da una lapide in marmo bianco in memoria del generale Pizzarello, risultante da una serie di accorpamenti di abitazioni vicine avvenuti nell’ottocento. Ciò segnala che una famiglia “ortodossa” stava affermandosi in quel periodo. Tutto iniziò quando il capostipite, Filippo Filati, di umili origini, acquistò inizialmente le case Lori e Giacometti e in seguito, grazie ai figli, anche casa Angelucci (1820), il torrione delle mura (1824), casa Giacometti (1827 e 1838). I figli di Filippo Filati furono, per la maggior parte, preti. Il primogenito, Vincenzo, fece gridare “allo scandalo!” fra la borghesia maceratese allorquando il Vescovo Strambi lo elesse Rettore del seminario, preferendolo a un nobile. Infatti anche il cronista Antonio Natali, figlio di tabaccaro ma nobile di Gualdo Tadino, lo assimilò alla “mammocciara” cittadina pur se, da abile amministratore di benefici ecclesiastici, Vincenzo incrementerà il patrimonio familiare.
Di un altro fratello, Ignazio, canonico del Duomo, si ha memoria che lasciò in dono alla Cattedrale un bel calice di argento cesellato, di scuola romana, recentemente scomparso per mano di ignoti. Il terzo fratello, Girio, fu personaggio incolore che nemmeno raggiunse il canonicato mentre l’ultimo, Stanislao, medico, fu appassionato di musica tanto che vagheggiò una orchestra di chitarre e forse fu per questa sua passione che Cingoli gli dedicò una via del centro. Comunque fondò, con i beni di famiglia, l’Opera Pia Filati che aveva cura di mantenere un giovane nel locale seminario. Ha lasciato memoria di sé in questa “Casa Filati” il generale Ugo Pizzarello (1877-1959) “Eroe dell’Ortigara” (1916). Costui era un conservatore, anche se non ecclesiastico, che discendeva da una famiglia di irredentisti di Capodistria. Iniziò a mettersi in evidenza fin dal 1908 quando partì per prestare soccorso ai terremotati di Messina e Reggio Calabria.
Continuò a dimostrare coraggio durante la guerra del 1915-‘18, in battaglia fu ripetutamente ferito meritando rilevanti decorazioni da parte di molte teste coronate, anche per la sua incrollabile fede monarchica. Una lunghissima iscrizione sulla lapide che biancheggia sulla facciata di Casa Filati ancora oggi ce lo ricorda. Nel 1905, l’avvocato maceratese Raffaele Foglietti scriveva speranzoso: “Sarebbe una cosa molto ben fatta se il Comune o, in difetto, qualche privato che potesse disporre di qualche migliaio di lire (cifra da anno 1905) cercasse di riportare l’esterno di essa casa, per quanto possibile, all’aspetto che aveva nel secolo XV”. Purtroppo nessuno fu così lungimirante da ascoltarlo. Con felice intuizione l’avvocato attribuì l’aspetto dell’edificio al ‘400 e non, come si è spesso detto, al secolo XIV. Più recentemente, esattamente negli anni ’80, Virgì Bonifazi, da ottimo disegnatore qual’era, tentò di dare una idea dell’aspetto originale della Casa del Podestà sperando in “benefattori” che, come sempre accade, non emersero. E siamo alla Casa del Podestà. Nel 1373 il Consiglio Comunale deliberò di costruire la “Domus Potestatis in merchato” ma l’utilizzo fu di breve durata perché già fin dai primi decenni del secolo XV la residenza del Podestà fu trasferita nella Piazza Maggiore, circa dove oggi sostano i taxi. Quindi la Casa del Podestà di piazza Mercato restò abbandonata tanto da divenire un rudere (restano, quasi immersi nel marciapiede, due archi a pieno centro di carattere romanico). Intorno al 1450 giunse a Macerata un calzolaio francese, Jean de Jean. Questi subito ammaliò le maceratesi che fecero a gara (forse per essere “a la page”) per farsi realizzare eleganti scarpette. Jean de Jean guadagnò così bene che nel 1470 iniziò a restaurare la Casa del Podestà, impiegando le maestranze lombarde che stavano a Macerata per costruire il campanile del Duomo.
I “lombardi” (questo appellativo per definire i muratori era usato nelle nostre campagne ancora nei primi decenni del secolo XX) inserirono anche qui i loro modi con finestre (forse bifore), con archi a pieno centro ornati da ghiere in cotto simili ai finestroni del campanile della cattedrale. Poi il figlio del calzolaio francese, Julien, trasferì la famiglia più a monte, in una casa sita all’incrocio fra via Padre Matteo Ricci e Piaggia della Torre, tanto che nel 1481 la “Casa” divenne albergo e guadagnò spazio allargandosi, con un verdeggiate orticello, su di un torrione delle mura. Si dice che qui sia nato Gaspare o “Gasparrino”, definito dagli storici d’arte come un “pittore di valore superiore alla fama”. Egli dipinse per tutta la Marca meridionale, da Ascoli fino a Loreto, confuso nelle attribuzioni addirittura con Giorgio Vasari! Nel 1545 la proprietà passò a un altro francese, Blaise le Brun, priore della prospiciente chiesa di “Sant’Antonio del Mercato”, e ancora all’ennesimo francese, Claude Ratier. Tutti continuando la tradizione “ospitaliera” anche quando, nel 1784, l’edificio fu dei Pennacchietti che lo affittarono ad altri osti. Modifiche ottocentesche ne svilirono l’originalità e rilevava il Foglietti: “Due finestre sono ancora come erano nel secolo XV salvo che una è murata nell’apertura ma altre, nella facciata di ponente, sono state murate in modo che non se ne vede che la traccia; altre modificate e altre, moderne, aperte. I sotterranei sono adibiti a uso di cantina e trattoria”. Nel 1927, per favorire il traffico si demolì anche la medioevale scala esterna. Tornando indietro nel tempo, al ‘700, affacciato su piazza Mercato, posto sulla confluenza fra via Crispi e vicolo Cassini c’era un edificio sede di un frantoio cittadino.
La gente lo chiamava “lu frisculu” o, meglio ancora, “lu pistrì”. Questo frantoio oleario era di proprietà, come l’edificio che lo ospitava, del conte Giuseppe Antolini; suo era pure il palazzetto immediatamente a monte. In seguito venne venduto ai conti Lauri e, successivamente, ai Menichelli, soprannominati “Montemelonati” dal paese di origine, appunto Montemelone (oggi Pollenza). Oggi ci imperano gli alimentari anche se, visti gli ulivi che ornano la piazza, un frantoio avrebbe avuto una attualissima utilità: raccolta, spremitura e vendita sotto gli occhi dei maceratesi. In cima al mercato o, come dicevano gli antichi, “in capite mercati” c’era lo spartiacque tra i quartieri medioevali di Santa Maria e di San Giovanni. Ancora oggi vi confluiscono quattro vie. Una è la “Piaggia della Torre”, cordone ombelicale fra la piazza del “castrum”, centro politico-amministrativo e la piazza del mercato, centro commerciale. Verso la fine della piaggia sbocca il vicolo Cassini, quarta “foglia di cipolla” dell’urbanistica maceratese che segna ancora le tracce delle trecentesche e dimenticate fortificazioni dell’Albornoz. Più sotto sbuca la ex via “de li frustati”, ex corso Vecchio, ex via Cavallotti (dal 1903) e ora via Crispi (dal 1931). Ancora più giù c’è la via degli Orti che fiancheggia giardinetti pensili già ricchi di succulente verdure. Nel 1927 si aggiunge un’altra confluenza, sia pure come percorso pedonale, la piaggetta dedicata a Umberto I° che unisce la parte alta del mercato con la circonvallazione esterna alle mura. Nel 1141, a tre anni dalla fondazione del nuovo Comune, dove ora c’è un massiccio fabbricato a fianco della piaggia della Torre esisteva una chiesa dedicata a San Nicola di Bari di proprietà di uno dei feudatari del Castrum Maceratae, tal Smido, figlio di Rustico. E’ facile supporre che qui avesse sede un “hospitale”, una struttura sanitario-alberghiera di cui si ha notizia negli Statuti Comunali del 1342. Questa vocazione a curare e ospitare fu ereditata e portata avanti dai canonici regolari di Sant’Agostino, detti del viennese, che qui si insediarono dopo la metà del ‘300 ed erano veri specialisti nella cura dell’herpes zoster, detto comunemente “Fuoco di Sant’Antonio”. Utilizzavano, sembra con efficacia, grasso di maiale per cui c’era l’usanza di far circolare e grufolare liberamente nella zona un maialino con un campanellino legato al collo. Questi monaci hanno lasciato alla città di Macerata, dono preziosissimo, un trittico di Allegretto Nuzi di inestimabile valore realizzato nel 1369 per la chiesa di Sant’Antonio del Mercato, ex San Nicola, il cui complesso si estendeva, tra orti ed edifici, per cinque entità edilizie e, quando l’attività degli antoniani si esaurì, il Consiglio Comunale progettò di insediare in questi spazi una “Sapienza”, una specie di Collegio Universitario, oppure, in alternativa, un istituto per “proietti” (da un estremo all’altro: o l’Università o i figli di NN!). Il progetto non ebbe seguito, nemmeno quello successivo del Cardinale Centini riguardante un seminario e la chiesa lentamente andò in rovina. I Pennacchietti, famiglia di appaltatori che si distinguerà nell’800 con Cesare e Augusto, ferventi garibaldini, ebbero in enfiteusi il complesso edilizio di Sant’Antonio del Mercato nel 1784.
Il diritto enfiteutico, nel 1843, fu acquistato dal romano William Baynes, oriundo inglese, venuto a Macerata come insegnante di lingua. Con lui giunse la moglie Claudia Valeri, pittrice, e Orazio, anche lui pittore liberty. Questi, nel 1858, ricostruirono l’edificio principale su progetto di Domenico Prosperi. Successivamente, nei primi del ‘900, l’insieme fu ceduto alla “Società edificatrice di case operaie” (una specie di IACP) che assegnò gli appartamenti a diversi privati mentre a pianterreno trovarono posto diversi negozi. Poco oltre la “Casa del Fascio” sulla quale si innalza il “Faro Littorio” c’è un’altra casa (non del Fascio ma di più umili “fascine”) dal cui tetto si erge non un faro bensì un lungo camino, oggi non più fumigante. E’ la “ciminiera de lu furnu de Lallo”. Questa, nei primi del ‘900, all’alba iniziava a fumare disperatamente perché Lallo, un omaccione che faceva il fornaio, cuoceva il pane con infornate dal profumo invitante. Per sicurezza, caso mai gli effluvi per il vento contrario non fossero giunti al naso delle massaie, Lallo si andava a piazzare sotto l’arco neoclassico di Porta Mercato e con voce stentorea strillava a tutta forza: “Lo pa’ adè cotto! Vrutte p…cce calete jò da ‘ssu lettu e venate a pijavvelo!” Personaggi d’altri tempi. Di seguito ci sono delle semplici abitazioni che ci permettono di tracciare un cammino tipico di quasi tutte le città italiane, ovvero il percorso seguito dalle “case di tolleranza”. Cominciò nel 1391 quando il Consiglio Comunale stese un contratto con l’appaltatore del “postribolo del mercato”. L’impresa era molto redditizia specialmente nel giorno di mercato, il giovedì (il mercoledì fu fissato molti anni dopo). I clienti si mescolavano alla folla vociante e inverosimile di venditori ambulanti e di acquirenti poi, approfittando della gran confusione, rapidissimamente si defilavano guadagnando l’entrata della agognata porta. Ne uscivano più tardi con evidente letizia! In seguito la “istituzione” si spostò a ridosso dell’odierna piazza Libertà, quasi di fronte a Palazzo Conventati, ma era troppo in vista e non si riusciva a nascondere il gran flusso di persone per cui, in epoca controriformista, una Commissione creata appositamente stabilì, nel 1617, un ritorno all’antico “lupanar mercati”. In seguito ci fu una ulteriore evoluzione e le fanciulle si sparsero, una sorta di “diaspora”, per tutta la città. La nostra casa rimase deserta e venne venduta a privati cittadini. Successivamente, in epoca libertaria, si ebbero nuovi appalti e la “casa chiusa” fu dapprima impiantata “su ppe’ li frustati” (in via Crispi), in seguito “dietro a San Rocco” (oggi vicolo del Ponte) per terminare in vicolo Marefoschi. Nel 1936, quando Mussolini venne in visita alla città di Macerata, vicino alla “Casa del Fascio”, sede del PNF provinciale e tappa obbligatoria, c’erano un paio di casupole dall’architettura modestissima e dalla fama non proprio cristallina. Urgeva nasconderle alla vista del Capo di Stato. Si realizzò allora una scenografia, con tavole di legno e grandi teli, sulla quale si potevano leggere frasi celebri (“E’ l’aratro che traccia il solco”; “Mussolini ha sempre ragione” e altre) e grafici raffiguranti il Nuovo Impero. E le “vergogne” maceratesi, per un po’, scomparvero. di fianco alla “casa chiusa” c’era una casupola meno gaudente. Qui venivano riposti infatti gli attrezzi di mestiere di Mastro Titta, al secolo Giambattista Bugatti, boia cittadino e ceppo, spadoni, manette, vestaglie e altro giacevano in attesa di essere usati. Almeno fino a quando il Mastro Titta inaugurò la “sua ghigliottina in provincia” iniziando proprio da Macerata, nel 1817, e i suoi vecchi attrezzi trovarono rifugio nella “Torre del boia” di viale Trieste. La casa fu venduta a privati che la affittarono ad artigiani (Libero Paci ricorda che ci lavorò un marmista) poi, in epoca più recente, ci fu una trasformazione e qui venne realizzata una scala di collegamento tra la piazza e il vicolo San Carlo, ripristinando un antico passaggio che era stato eliminato nel 1872 per l’ampliamento dell’ospedale. Di fianco c’è la “Casa del Fascio”, edificio opera dell’architetto Cesare Bazzani, progettato negli anni ’30, che si inserisce entro una struttura preesistente che era adibita a Ospedale Civile. Il Bazzani ne ridisegnò la parte anteriore che si presenta suddivisa in tre parti, con un corpo centrale e due ali laterali (queste erano strutturate in tre piani, successivamente elevate con un quarto piano). Il corpo centrale era strutturato su due livelli arcati, suddiviso in verticale da lesene che spartivano arcate e nicchioni con statue, il tutto sormontato da una trabeazione con un attico balaustrato. Oltre la neoclassica Porta Picena, entrando nella piazza, sulla destra, una costruzione risalente al 1865 sostituisce il “locale per uso del corpo di guardia”, descritto in questi termini nel catasto gregoriano. La realizzazione dello Sferisterio determinò la chiusura di un vialetto che correva sulle mura e del quale ci sono ancora dei resti più a tergo. Un po’ più a nord, verso la fine del ‘700, crollarono alcune casupole che rimasero allo stato di rudere, almeno fin quando, nel 1818, Francesco Pepegna si prese la briga di ricostruire il tutto. Qui si apriva, siamo negli anni 1930, ‘40, il bugigattolo dove operava, alla garibaldina, Baldoni, un fotografo più noto con il nome di “Briscoletta I°”. Alla sua attività fungeva spesso da fondale il massiccio edificio che, fondendo le proprietà Bonotti, Ciccioli e Giorgetti fu edificato, forse, come albergo. Questa continua “vocazione ospitaliera” della piazza del Mercato prima, Mazzini poi, fu ripresa nei primi del ‘900 dall’ “amiricanu” mentre quella della ristorazione ebbe effetto per mano di “Neno d’Aragona”, al secolo Neucle Crispiani. Lo “Studio fotografico Briscoletta” (Baldoni? E chi era costui, chi lo conosceva!?) si affacciava timidamente su piazza Mazzini per una porta-vetrina tempestata da foto ricordo di pargoli dall’aria stupita, stesi su finta pelle di leone; sposi compunti: lui con baffetti e solino su uno striminzito abituccio, lei in velo nuziale ex tarlatana posta a difesa di un banco di frutta e verdura dagli insetti. Briscoletta I°, indaffaratissimo e dalla battuta pronta, disponeva di una “sala posa” del tutto particolare. Infatti, appena capitava un cliente che aveva necessità di una foto-ricordo, magari da spedire a parenti lontani, lo trascinava nel retrostante Vicolo dello Sferisterio dove, accanto al piccolo edificio gratificato dal fascinoso cartello “Latrina pubblica”, lo immortalava facendo lampeggiare il magnesio su quegli occhi semichiusi. Immaginate che espressioni potevano uscire fuori! Situazioni e personaggi decisamente di altri tempi.
continua
foto di Cinzia Zanconi