Qualche giorno fa discorrevo con un anziano agricoltore contrariato dal fatto che il suo campo fosse tutto attraversato da residui di strutture in conglomerato cementizio della migliore tecnica dell’età Augustea. Mi parlò di suo nonno e della storiella che questi gli raccontava, di Romolo e Remo che proprio lì, sulla collina che guarda il Chienti, volevano fondare Roma, ma una maga disse loro che non c’era abbastanza acqua e di andare al Tevere.
Ho sentito molte versioni di questa eco di leggende antiche, a cominciare dal “‘Na orda qui era Roma” che si dice a Urbisaglia. Come per molti altri aspetti di questa terra, anche per l’evo antico ho letto libri che dicono l’opposto, o quasi, di ciò che dice il territorio. Il “Piceno” della storia scritta vive dei soli riflessi della romanità, mentre i reperti archeologici testimoniano a mio avviso esattamente il contrario. I musei locali che offrono al visitatore i pezzi apparentemente di minor pregio artistico fra quelli scavati nel loro territorio, ci parlano di una società che senza soluzione di continuità è presente dalla più remota preistoria fino ai tempi nostri. Solo i terremoti, a quanto pare, hanno procurato delle discontinuità evolutive (l’ultima, nel V sec. d.C.). Perché scrivo questo? È semplice, dappertutto nei piccoli musei trovo reperti attribuibili alle tre etnie che dalla preistoria convissero su questo territorio: i Piceni, i Celti e gli Etruschi. La civiltà multietnica del territorio marchigiano dimostra di essere stata ricchissima visto che poteva permettersi di importare i beni di lusso più esclusivi dell’evo antico come l’ambra del Baltico, l’oro, l’avorio e anche le uova di struzzo dall’Africa (l’uovo è il simbolo della vita per gli Etruschi) oltre a una incalcolabile quantità di ceramica dalla Grecia. Non mi stupisce l’ipotesi che siano stati proprio i magnati piceni a investire nella fondazione di Roma. Importare significa comprare e per farlo ci vogliono i soldi: da dove dunque originava l’indubbia ricchezza del territorio che ancora ritroviamo nelle inumazioni scampate al millenario saccheggio delle necropoli? La risposta a mio avviso la danno gli oggetti in leghe ferrose, bruttini da esporre nei grandi musei, ma abbondanti in quelli minori. Lavorare l’acciaio e produrre fra l’altro le potentissime spade falcate, la cui presenza è maggiore nelle Marche che in ogni altra parte d’Italia, significa disporre di un bene di scambio ricercatissimo e di alto valore, fonte di notevole ricchezza. Quando è iniziato lo sfruttamento della tecnologia dell’acciaio in collaborazione con i produttori etruschi di blumi di ferro? Lo si deve a mio avviso meglio studiare, cominciando dal secondo millennio a.C., abbandonando gli assiomi delle migrazioni primaverili dalla Sabina per approfondire le informazioni a corollario quali le poche persistenze di grandi opere edili preromane. Forse si dovrà accertare ed accettare che i Saluii che presidiano Marsiglia e la “via dello stagno” fino in Cornovaglia non siano celto liguri autoctoni della Costa Azzurra ma Celti provenienti da questa terra Saluia quindi Salica, giusto quel territorio che raccorda il Piceno Ascolano con la terra di Brenno il Senone. Proprio al centro di questa terra sorgeva l’Urbe Saluia (leggere Salvia è un’opinione come un’altra) l’unico centro che ritengo abbondantemente pre-romano a fregiarsi del temine Urbs ovvero città capitale. Purtroppo l’Urbe Saluia, che si scrive Salica nell’alto medioevo, ci collega in equivocabilmente con i Franchi Salici e fa ricadere il tutto nel negazionismo storico a danno del vero patrimonio culturale nostrano. Questo “pezzo” è uno spazio infinitesimo per affrontare la questione. Spero che sia un sassolino nello stagno e faccia l’onda.
Medardo Arduino
Entrambi gli oggetti sono esposti al Museo Archeologico Nazionale delle Marche