di Medardo Arduino
La prima volta che vidi il grafico della legge della domanda vs offerta, le due curve mi sembrarono le sciabole di due duellanti che si contendevano il profitto. Ritengo che, dai Sumeri a oggi, le condizioni che generano gli scambi commerciali non siano affatto cambiate. Mi sono chiesto quali fossero le condizioni degli scambi nell’antico Piceno. Per leggere lo status di un popolo basta ciò che lascia nelle sepolture, integrandolo con le vestigia sul territorio. Nei musei archeologici marchigiani possiamo vedere una notevole quantità di beni d’importazione: ceramiche dalla Grecia, oro, avori e uova di struzzo dall’Africa, ambra dal Baltico, rame e stagno dalla Cornovaglia e una gran quantità di oggetti in acciaio foggiati con ferro Etrusco. Ho cercato, ma per mie carenze non ho trovato, convincenti analisi sull’economia del piceno preromano e romano e soprattutto chiare ipotesi sulla compresenza nelle necropoli di beni riferibili alle etnie Celtiche ed Etrusche che a quanto mi è dato vedere convivevano coi Piceni. Se ci sono beni esotici, la legge del commercio dice che questi arrivano se c’è richiesta e se il ricavo giustifica le spese di trasporto. Il commercio è scambio: a fronte di un valore in arrivo ci deve essere un controvalore in partenza. La carta moneta non esisteva perciò non si potevano far debiti, gli scambi erano di un bene contro un altro. Quali erano i beni in partenza dai mercati piceni? Escludo che i prodotti oggetto di commercio “internazionale” fossero agricoli, quella che era scambiata doveva essere merce ricercata e di valore che richiamava prodotti d’èlite da piazze molto lontane. La mia ipotesi è che il Piceno preromano e romano fosse il luogo della produzione specialistica di manuatti in acciaio, soprattutto armi, vendute fin dove arrivavano navi e carovane. L’ipotesi si basa sull’abbondanza di reperti in acciaio dei nostri musei contro la scarsezza in quelli di luoghi via via più lontani. L’acquisto di beni pregiati come evidenziano i reperti è indice anche di socialità e cultura: le necropoli dimostrano una distribuzione poco “piramidale” della ricchezza quindi un benessere distribuito a una larga fascia dell’oligarchia picena soprattutto prima della Roma repubblicana. Ora, applicando la metodologia comparativa sono portato a pensare che gli oggetti esotici di cui sono pieni i musei dell’Italia centrale, non riflettano una dipendenza culturale, a esempio verso il mondo levantino, a causa dell’infinità di vasellame greco, ma semmai il contrario: sono i produttori che adeguano le loro manifatture ai gusti e alle richieste dei clienti, questo da che mondo è mondo. Le immagini mostrano un piccolo calice di manifattura giapponese su modello europeo: è un esempio della situazione dei primi periodi degli scambi della Compagnia olandese delle Indie Orientali, il calice è decorato alla giapponese, ma il monogramma VOC è quello della compagnia. Già nel XVII sec. era più conveniente far fare oggetti in oriente che a casa propria (Delft). L’altro soggetto è un piattino-ricordo turistico acquistabile a Delft, preso fra gli avanzi di produzione per l’export che più di 25 anni fa un anziano signore offriva ai passanti nel centro di Shanghai. Ambo gli oggetti non dimostrano alcuna dipendenza “culturale” dell’Olanda dall’oriente. Forse anche l’insistita presenza culturale greca nel centro Italia poteva essere la dipendenza economica dell’Attica dal gusto e dai soldi degli indigeni del centro Italia.