di Medardo Arduino
Chi ha un nipotino che inizia a cimentarsi alle elementari con la grammatica italiana, difficilmente pensa che la nostra bella lingua sia nata proprio qui, a cavaliere dei monti Sibillini. Tutti abbiamo imparato che i toscani, i grandi padri del nostro idioma Dante, Petrarca, Boccaccio, siano stati i costruttori della nostra lingua nazionale. Credo che le cose non siano andate proprio così, ma anche questo argomento, come il resto della storia medievale delle Marche è stato oggetto dei depistaggi tre-quattrocenteschi volti ad appannare qualsivoglia aspetto della origine marchigiana degli “imperatori germani” e delle loro “indebite pretese” su questa terra, come scriverà Giò Marangoni a proposito di Federico I e II. Non voglio di certo togliere ai grandi toscani l’aver perfezionato la forza espressiva dell’idioma centro Italiano del loro tempo, ma voglio, anche se in estrema sintesi, provare a proporvi una visione leggermente diversa, proprio sulle origini della nostra lingua anche e soprattutto dai volgari marchigiano e umbro. Non stupitevi, non sono un umanista, ma la cultura è anche fatto di economia e società civile perciò leggibile pure da questa angolazione. Torniamo un poco più indietro nel tempo: siamo nel IX secolo e i tre pretendenti all’impero di Carlone lasciano l’antica Francia Salica per disputarsi l’Europa transalpina. L’altro potere forte: il Papato amplia le sue pretese territoriali dal feudo Fermano all’intera regione. La ricchezza della regione dovuta agli investimenti sul territorio dei proventi della raccolta dei tributi fiscali dell’impero subisce un periodo di rallentamento e di riconversione: agli inizi dell’ età comunale sono le città mercantili (quelle piene di torri-deposito come Ascoli, Iesi, Osimo, Fabriano) a mantenere un buon livello di benessere e attirare il nascente ceto borghese in competizione economica con l’oligarchia di origine militare. La comunicazione commerciale, liberata dal vincolo della lingua ufficiale dell’impero carolingio inizia a esprimersi anche su pergamena con le espressioni della lingua popolare o “volgare”. Queste espressioni, molto più aderenti al vivere quotidiano iniziano a far breccia, anche per l’allargamento della classe acculturata al ceto borghese. Non c’è solo “sao ko kelle terre por kelle fini”, l’espressione volgare si estende ai prodotti culturali di maggior consumo: la poesia e la prosa sacra e profana destinate alla liturgia e all’intrattenimento. Al tempo di Federico II fra i cultori di questa letteratura si possono annoverare i suoi funzionari che lo seguono a Palermo e lì danno vita a quella che è riconosciuta come la Scuola Siciliana madre della nostra lingua. La questione richiederebbe una trattazione ben più ampia di queste poche righe di sintesi, ma a ben vedere di sìculo nei componimenti della scuola palermitana di Federico II c’è quasi nulla. I componimenti poetici che ci sono pervenuti (dove saranno mai finiti gli altri scritti di storia, politica, economia e legislativi che per logica vennero prodotti nella medesima lingua dai medesimi funzionari-poeti?) non possono essere, come vuole una spiegazione inconsistente messa in circolo forse nel ‘400 e mai contestata, trascrizioni in toscano dal siciliano a opera di ignoti copisti fiorentini. Sappiamo che questi componimenti poetici non hanno strutture provenienti dal vernacolo siculo, ma sono ricchi di contenuti di derivazione tardo latina, delle volgate centro italiane e “provenzali”. I legami fra i volgari di Toscana, Umbria, Marche e il Piemonte meridionale anch’esso “provenza” romana, sono gli stessi legami culturali e di convivenza a corte dei funzionari Federiciani, provenienti dalla nobili famiglie degli entourages degli “Ugo” di Toscana, dei “Roberto” d’Umbria e dei “Manfredi” del Monferrato, quest’ultima terra d’origine di Bianca la consorte di Federico II a Palermo. Sono passati troppi secoli e spiegazioni devianti per poter comprendere appieno quale fosse la percezione del problema dei legami etnici e culturali di Federico II e dei suoi funzionari con le Marche che devono essere senza alcun motivo di contestazione, terre del potere temporale del Papa Re, per giustificare la negazione anche nel campo letterario. Io ci provo lo stesso, perché è per me evidente che quella classe colta e raffinata di ricchi borghesi e di (ancora) nobili Franco Salici abbia “ripulito” nello scrivere versi, il linguaggio popolare del centro Italia e delle Marche in particolare. Ricordo, sottolineandolo, che la parte non cancellata delle produzioni letterarie in volgare di questa regione è rappresentata dai soli componimenti d’ispirazione religiosa come quello di Frà Pacifico che alcuni ricercatori indicano come autore del Cantico delle Creature di San Francesco che fa da titolo a questo articolo. Questo grande poeta marchigiano, prima di abbracciare la vita francescana si chiamava Guglielmo Divini dei Brumforte, poeta di corte di Federico II insignito del titolo di “re dei versi”. Le presenze culturali Marchigiane nel movimento Francescano sono numerose, riconosciute e determinanti ed è facile documentarsi anche solo sul web. Resta da sciogliere pure nel campo della letteratura poetica l’aspetto negazionista che appunto vuole scritte da siciliani come messer Osmano e Cielo dal Camo (il primo marchigiano, il secondo piemontese) e poi “tradotte” da semplici copisti toscani (tutti residenti a Roma tra l’altro), che trascrivono, ma in rima e con perfetta proprietà lessicale e culturale i componimenti della scuola Palermitana. Invito i curiosi su questo argomento a fare un rapido escursus sul tema, sufficientemente documentato anche sul web, oltre che a constatare che il termine altissimu è scritto in corretto marchigiano.