A cura di Fulvia Foti
Questa è la lettera che mia madre scrisse a sua sorella nel lontano 1945, per descrivere il disastroso viaggio intrapreso per raggiungere mia padre, Lino, che non vedevamo da oltre 3 anni, essendo pericoloso per lui ritornare a Trieste in quanto mio padre, come Maresciallo dei Carabinieri, aveva operato in Dalmazia nel servizio segreto.
Itala Sup.re 29/12/1945
Olga carissima,
l’altro giorno ho ricevuto la tua cara lettera e non ti posso dire quanta gioia ne provai! Mi sembrava la voce della Patria diletta che mi seguisse per dirmi carezzevolmente: Figlia mia, non ti ho scordata! E’ strano, stranissimo questo campanilismo che ci tiene avvinti alla terra di origine (Fulvia e Trieste), alla città natale. Veramente tu più volte ostentasti un indifferentismo per la tua culla di nascita che mi rincresceva.
1/1/1946
Riprendo la lettera dopo alcuni giorni di pausa; questa mattina ho ricevuto la seconda tua lettera, in data 22 dicembre 1945. Ti ringrazio tanto per le tue buone parole e per il senso di nostalgia a mio riguardo. Puoi esserne certa che anch’io ti penso! Incomincio con ordine a narrarti le vicende del mio viaggio. Appena mi vidi carcerata in quella specie di carrozzone ambulante, pigiata come le rituali sardine, al buio, pregai mentalmente: Dio me la mandi buona! sarei scesa se non fosse stato che non si poteva scendere il cassone (ndr: baule), così sepolto sotto tutta la roba! Incominciammo il viaggio fra le grida di protesta di tutti i viaggiatori, e specialmente di 6 o 7 che erano in piedi, malgrado avessero pagato per il posto a sedere. Non ti posso descrivere le grida e le invettive contro il proprietario che… intascava i soldi, e ci faceva viaggiare come animali! Ciò che mi urtava maggiormente era il buio, che non mi permetteva di distinguere i miei compagni di viaggio. Dalla parte posteriore, rimasta aperta, potevo intravvedere qualche lembo di paesaggio velato nel grigiore della nebbia, dapprima luoghi cari e noti, pieni di ricordi e visioni. A Monfalcone ci fu una sosta per accogliere altri 3 viaggiatori che avevano pagato regolarmente da Trieste; erano marito, moglie e un bel bambino di 3 anni, armati di un potente cassone (più grande del mio!) e di valigie. Qui viene il bello; i viaggiatori già stretti e specialmente quelli che stavano in piedi, incominciarono a urlare e protestare che eravamo già troppi e non permettevano a quei poveretti di salire: tutto il livore e l’egoismo di colui che viaggia mi apparve nitido e chiaro; era vero che i più stavano sui piedi degli altri, ma come fare? Feci sentire la mia parola di pace e giustizia: un po’ alla volta gli animi si calmarono, i 3 poveretti furono fatti salire, e l’esecrato cassone pure. Dato che la signora stava in piedi mi offersi di tenere in braccio il bambino, tutto biancovestito, nella morbida pelliccia; venne da me felicissimo e diventammo buoni amici, si chiamava Savino. Il viaggio continuò mentre il cielo andava rischiarandosi e così l’animo dei viaggiatori insonnoliti e infreddoliti. Il padre di Savino aveva la chitarra e io l’adocchiai subito! Una breve sosta a Portogruaro per prendere il caffè e poi avanti diretti fino oltre Padova, dove ci fermammo verso le due per il pranzo. Io mi ero creata degli amici nel papà e mamma di Savino e in un altro signore simpatico: formammo una tavolata e allegramente incominciammo a mangiare il brodo che era fitto e insapore. Per secondo mangiammo il nostro prosciutto e salame; i signori offersero il vino, io la frutta, e dopo una buona oretta di sosta rimontammo in macchina. Ripresi il bimbo sulle ginocchia e mi rannicchiai nel mio cantuccio. Con la pausa, la cibaria e il sole, gli animi dei viaggiatori si erano rasserenati e incominciò la conversazione. io proposi una sonatina di chitarra e tutti approvarono. Dalla musica si passò al canto, e tutte le nostre belle canzoni triestine furono ricordate, per quanto, di tutti i 30 viaggiatori, mi accorsi di essere soltanto io triestina. Tutti gli altri erano più o meno meridionali. Come il sole ci abbandonava e incominciava a imbrunire così l’umore nostro andava facendosi nero… il silenzio ritornò, qualche protesta per avere un lume, inutile. Avrei desiderato bere o mangiare qualcosa, ma come trovare la borsa nell’oscurità? C’era pericolo di toccare qualcuno del sesso forte in posti reconditi..! Fulvia posava la testa sulla mia spalla e dormiva, il piccolo aveva la testa sul mio petto e dormiva, io avevo reclinato il capo all’indietro su un ferro che mi ghiacciava il cervello e cercavo di dormire. Si viaggiò così al buio per parecchie ore. Intanto qualche viaggiatore scambiava il suo posto con quelli che erano in piedi, così io pure mi trovai a offrire il posto di Fulvia alla mamma di Savino, la quale si sedette contenta e prese il piccolo fra le braccia; Fulvia venne sulle mie ginocchia. Ben presto dovetti pentirmi della mia generosità: i 35 chili di Fulvia divennero con l’andar del tempo 50, 80, 100!
continua