Tratte da“Dicerie popolari marchigiane”
di Claudio Principi
La candela magica
I nostri vecchi favoleggiavano di una candela magica di cui si servivano i ladri; era chiamata cannéla latronéccia (candela ladrona) e veniva fornita da li sdrigù (negromanti) e si diceva che fosse stata fatta con grasso umano, meglio se proveniente da un ladrone impiccato o rimasto ucciso nel corso di una rapina. I ladri che erano in possesso di questa candela ne erano gelosissimi e la usavano regolarmente durante le loro incursioni notturne nelle case altrui. Infatti, una volta entrati, se la candela non si accendeva voleva dire che i padroni erano ancora svegli e bisognava aspettare che si addormentassero; se invece la candela si accendeva senza difficoltà potevano subito procedere alle loro ruberie. Potevano anche farlo in tutta tranquillità perché, una volta accesa, la candela avrebbe impedito ai padroni di svegliarsi. Essi, anzi, si sarebbero destati soltanto dopo che i ladri avessero spento la candela magica, mai prima. A proposito di questa credenza si racconta di una coppia di ladri matricolati che, muniti della cannéla latronéccia, una notte andarono a rubare nel palazzo di un notabile che aveva fama di essere ricchissimo ma di grande prestanza fisica e con un pessimo carattere. I ladri, forse per l’eccessiva emozione dovuta all’eccezionalità dell’impresa, vi andarono dimenticando i fiammiferi, perché ognuno aveva pensato che li avesse il compare. Furono così costretti, una volta furtivamente entrati da una finestrella del seminterrato, a portarsi tentoni verso la grande cucina ove avrebbero potuto accendere la candela, perché nella cucina i fiammiferi non mancano mai. Vi arrivarono con difficoltà ma caso volle che uno di loro, urtando una sedia, la facesse cadere sopra un gattone che se ne stava accovacciato presso il focolare, la cui cenere ancora emanava calore. L’animale , miagolando e scappando, fece un putiferio e svegliò il padrone che accorse dalla sua camera con una lanternina in mano. I ladri, già atterriti prima dal timore per il gatto inferocito, poi pietrificati per trovarsi lì sorpresi da quell’omone che, subito e a ciglia aggrondate, chiese: “E vuatri chj scéte?” (E voi chi siete?). “Simo du’ puritti eper ‘ppiccià’ ‘sta cannéla erammo bboccati u’ momendu in gérca d’un furminande…” (Siamo due poveretti e per accendere questa candela eravamo entrati un momento in cerca di un fiammifero…). “S’adè per questo – fece il padrone di casa afferrando la candela magica – ve la ppìccio io co’ ‘sta luma!” (Se è per questo ve l’accendo io con questo lume!). Ma per quanto s’ingegnasse non riuscì ad accendere quella candela dalle magiche proprietà, si rese allora conto di trovarsi davanti a due malfattori, dette l’allarme per svegliare la servitù e si lanciò sui due che, però, fecero in tempo a svignarsela, sfuggendogli. Il giorno dopo, prima ancora di denunciare il fatto alle guardie, portò la cannéla latronéccia al curato e questi, non sapendo che farne e come togliere il maleficio, la portò al vescovo. Il vescovo gli chiese: “Sicché questa candela maledetta si accenderebbe solo se i padroni dormono; e se i padroni dormono e la serva sta sveglia perché, magari, aspetta qualcuno, allora si accende o non si accende?” Rispose imbarazzato il curato: “Questo non lo so…”. Al che, di rimando, il presule restituendo la candela: “Allora fai la prova. Può darsi che questa candela possa essere utile a te, che so che te la spassi ogni notte con la serva del nostro fattore!”